QUELLA DONNA FORTE

Storia di Judith Ngome Ekwele
A cura di Vanna Innocenti 

Mi chiamo Judith, sono nata il 22 settembre 1973 a Yaounde capitale del Camerun (paese del centro Africa a nord dell'equatore che confina con la Nigeria, il Congo, il Gabon, la Repubblica Centrafricana e il Chad). Nel mio paese ho fatto le scuole superiori ma mi sono fermata un anno prima della maturità perché bocciavo di continuo la prematurità. 

Prima di arrivare in Italia avevo una bottega di sartoria che rendeva molto poco e che mi teneva soltanto impegnata. 

Vengo da una famiglia di otto figli, terzogenita e prima di cinque femmine (la prima femmina nella nostra tradizione è considerata la seconda mamma). Eravamo tanti, la nostra famiglia era allargata: mio babbo aveva in carico anche i suoi nipoti, i figli dei genitori senza lavoro e condividevamo tutto. 

Il mio babbo dopo aver lavorato come sottufficiale militare era in pensione. La mamma aveva una bottega che rendeva a tratti. 

Dal 14 febbraio 2016 siamo rimasti sette perché il mio amatissimo fratellino Beltus, di quasi 39 anni, è stato tragicamente strappato alla vita (piango). Mio fratello, persona sensibile e coraggiosa, combatteva i terroristi preoccupatissimo del futuro dei bambini: voleva vederli crescere in un paese in pace. Era Tenente Colonnello dell'esercito del Camerun ed è scomparso in circostanze ambigue. Con i suoi soldati era di ritorno da una missione molto pericolosa nel contesto della guerra contro i terroristi di Boko Haram; avevano vinto, liberato ostaggi e arrestato tutti i terroristi del luogo. Nella versione ufficiale ebbe un incidente passando su una mina e morì 13 ore dopo. Solo che mio fratello era stato dichiarato fuori pericolo di vita a sentire le persone a lui vicine negli ultimi momenti, tra i quali alcuni medici, che lo misero nell'aeroplano per un' evacuazione sanitaria della città. Due ore dopo invece di un ferito, ci restituirono una salma. Nel Camerun, questo combattente Tenente Colonnello rimane una leggenda. 

Durante i nostri momenti di miseria, negli anni '90, io e mio fratello Laurent ci consolavamo nel sogno di andare in Italia per una vita migliore. Laurent è il mio fratello più grande, è quello che mi ha fatto crescere nell'idea dell'Europa. 

Conoscevamo poi delle persone, la cui vita una volta emigrate era migliorata: con lo stipendio di una colf qui si può mantenere una famiglia numerosa nel mio paese, ugualmente con lo stipendio di un facchino; lì chi ha una laurea non trova lavoro, le infermiere da noi sono ignorate e trattate male mentre qui sono ben accolte. 

Oggi viviamo in Italia tre fratelli, tutti a Pontassieve. 

L'undici agosto del 2000 arrivo finalmente in Italia, all'aeroporto di Roma Fiumicino. Da lì devo raggiungere mio fratello Laurent a Firenze ma lui non si presenta a prendermi perché allettato dopo un incidente stradale; quindi viaggio con i suoi gentilissimi amici della Costa d'Avorio. 

Per strada comincio ad avere dei risentimenti: mi sembra troppo lungo il viaggio per arrivare a casa di mio fratello. Quando arrivo da lui, nel luogo dove vive, in una Caritas, non è proprio come mi ero immaginata l'Italia. Per me fu trovato un posto abbandonato e addirittura in condizioni non abitabili, dove si sentiva molto freddo e non c'era riscaldamento. 

La sera stessa cominciai a lavorare come lavapiatti in un ristorante della città di Firenze. Ero contenta, … finalmente potevo avere la mia vita. 

Volevo studiare, per diventare una stilista-modellista; sognavo di sposare con i tessuti la cultura camerunese con quella italiana. Sognavo di creare quello che sarebbe diventata una ricchezza sul mercato italiano. Ma presto, piano piano il mio sogno si spense. Si spense perché dovevo fare fronte alla realtà: non parlavo italiano, solo francese, avevo un visto solo per un mese; la sanatoria arrivò solo dopo qualche anno; non ero pagata ma lavoravo a nero. Mi dissero: “Quando tu arrivi, basta che non t'immischi nelle faccende brutte, tipo la droga e la prostituzione. Se tu fai un lavoro pulito nessuno ti dice nulla … e poi, ogni tot anni c'è la sanatoria!” 

Purtroppo la sanatoria per il permesso di soggiorno arrivò solo dopo tre anni, nel 2003! Io passai tre anni d'inferno. Sì, perché essere clandestino è come la prigione. Quando uscivo avevo sempre paura che magari mi chiedessero i documenti e mi rimpatriassero. 

Dopo il primo periodo mi ritrovai ad affittare un posto letto in una casa con persone che non avevo mai visto in vita mia ... era uno stress continuo; e poi gli orari: non potevo fare come volevo, entravo solo per dormire e presto la mattina dovevo essere fuori, nessuno doveva sapere che abitavo lì! 

Ero in camera con una ragazza ma in bagno non potevo andare quando volevo, nella casa c'erano altre persone che non conoscevo. Mi spiegarono che funzionava così: io potevo solo accettare quelle condizioni, comunque pagare una bella cifra (circa 250.000 Lire) e solo il letto era compreso … ed era anche molto stretto che per rigirarti la notte! 

Una cosa mi colpisce ancora molto. Lavoravo in un ristorante, facevo la lavapiatti, entravo la mattina alle 9 ed uscivo la sera alla mezzanotte, talvolta all'una, però non avevo stipendio. Quando provavo a parlarne, qualcuno mi diceva: “Aspetta, tanto prima o poi ti pagheranno, … e poi sei senza documenti, almeno qua puoi mangiare!” Ma io avevo un affitto da pagare. 

Un aiuto venne da mio fratello: “Vai, ti faccio questo prestito, poi quando riscuoti me lo rendi “ 

Verso il 20 dicembre, dopo l'intervento di un mio carissimo amico che minacciò di denunciare il datore di lavoro per il trattamento da me subito nel suo locale, mi venne dato per la prima volta uno stipendio; mi licenziai subito da lì. 

Quei soldi li usai per l'affitto e li investii per l'arrivo di mio marito con cui speravo con tutta l'anima di ritrovare un po' di serenità, così speravo ... anche dalle promesse che mi faceva per telefono. 

Purtroppo, al suo arrivo, vivendo anche lui la parte più negativa dell'immigrazione, non vide più in me quella moglie con cui aveva voluto costruire il futuro, quella amatissima donna in cui aveva visto la speranza, un futuro brillante; per colpa delle difficoltà dell'immigrazione, cominciò a vedere in me la sua rovina! 

L'immigrazione piano piano ci allontanò fino, poi, a separarci, nonostante la bellezza di quattro creature (un maschio e tre femmine) avute insieme. 

Si, l'immigrazione non uccide solo nel mare. 
Si, l'immigrazione non uccide solo il fisico. 
L'immigrazione uccide anche l'anima e il risultato può essere la fine di un matrimonio. 

All'inizio del 2009, dopo essere stata accolta, ospitata ed aver abitato in più luoghi nella zona di Borgo San Lorenzo, arrivai a casa di mio fratello, a Pontassieve. 

Era in marzo e fu un periodo di grande fatica. Non gestivo bene il mio lavoro, dopo la separazione, in quel periodo dovevo organizzare il trasferimento e la mia vita da sola con i miei figli. Così alla scadenza non mi rinnovarono il contratto e persi il lavoro in casa di riposo. Dopo un periodo di disoccupazione, nell'agosto 2010, ritrovai lavoro in un'altra casa di riposo e feci il corso per operatore socio-sanitario a Careggi: da allora lavoro in quella casa di riposo. 

Quando arrivai a Pontassieve non fu facile: ero una giovane mamma, i figli li avevo fatti uno dietro l'altro, ero preoccupata per loro dopo la separazione e avevo in mente solo che dovessero andare a scuola! 

Mi dicevo: “Sono staccati dalla scuola, dall'asilo e si ritrovano in una casa che non è la loro, non hanno più il babbo insieme alla mamma”. 

La vivevo male. 

Con i servizi sociali si cercava la soluzione: le bambine entrarono subito in un asilo nido privato perché quello comunale era pieno, mentre inserire il bambino in una scuola materna fu molto ma molto difficile! Mi fecero firmare un foglio dove mi impegnavo a cercare un'altra scuola per lui a fine anno perché lì era pieno. Lo volevano mandare in una scuola più lontana ma io mi muovevo solo a piedi e sarebbe stato un grosso problema accompagnarlo. Ero tutti i giorni dall'assistente sociale per cercare una soluzione, ad un certo punto mi disse: “ Il bambino, a settembre, rimarrà a scuola dov'è, però per la bambina più grande deve andare a supplicare dalle suore perché la prendano lì”. Era un asilo privato. La terza bambina invece la sistemarono nell'asilo comunale. 

Andai dalle suore, io non sapevo nulla dei pagamenti. L'unica mia preoccupazione era che i bambini fossero integrati. 

L'accompagnavo, la riprendevo. Solo dopo del tempo la bambina si lamentava: “Nessuno vuole giocare con me!”. Non sapevo che ci fosse un gruppo di mamme in cui dovevo inserirmi … nulla, ero persa ! 

Venne il turno della seconda bambina di andare alla scuola materna e le suore mi chiamarono: “Ti piace la scuola? Se ti piace compila i fogli e iscrivi anche la seconda.” Così feci. 

Solo dopo tre anni, iniziavo a riprendermi dalla separazione, un giorno ci fu l'assemblea d'inizio d'anno alla scuola e … un genitore sparò: “La scuola sta andando male perché hanno permesso, hanno accolto famiglie che non hanno mezzi di pagare e permettersi una scuola privata” e ancora questa mamma di brutto disse: “Chi non è in grado di pagare la scuola vada in una scuola pubblica, questa scuola è per chi è in grado di permettersela!”. 

Mi alzai … uscii da lì. 

Mi vergognavo da morire, sentivo di aver preso qualcosa a qualcuno … e me ne andai. Non volevo sentire più nulla. 

Qualche tempo dopo mi chiamò una delle suore dicendo: ”Tutti i genitori stanno confermando le iscrizioni per le elementari, le tue bambine non le vuoi mandare alle elementari? Non ti piace la scuola?” 

“Mi piace la scuola” risposi “Ma all'assemblea di ottobre ho sentito questa cosa e … io non ho soldi per pagare una scuola privata, tu lo sai!” 

Mi fece: “Non ti preoccupare, se la scuola ti piace, iscrivi la bambina, poi al resto ci pensiamo noi”. 

Questa è una cosa bella, ma a volte sarebbe anche meglio informare la gente! Io ero aiutata nei pagamenti dalla parrocchia ma non lo sapevo, non lo sapevo. Non mi sentivo più libera di parlare con le altre mamme. Mi sentivo come: “È lei, è lei che non paga la scuola!” 

Riparlai spesso con questa suora e da allora ho iniziato anche ad andare agli incontri che la scuola organizzava. Ho così capito che la parrocchia copriva le spese per le famiglie in difficoltà ed io facevo parte di queste. 

Ho continuato a mandare i miei figli lì, in quella scuola e sono contenta di avere avuto questa possibilità. Una parte di me è … come se fosse rimasta un po' ... come danneggiata da quella sparatoria di quella mamma a quell'assemblea. Ancora oggi con alcune persone non riesco proprio a fidarmi o ad essere a mio agio. 

Mi sono impegnata molto per non far mancare nulla ai miei bambini, anche se sostenere tutte le spese è dura. Devo ringraziare molti per l'aiuto che ho avuto: la chiesa, alcune famiglie, gli amici, il servizio sociale; devo a loro se sono riuscita spesso, davanti alle mie difficoltà di donna sola immigrata, a ritrovare qualche equilibrio, ripartire ed andare avanti. 

Come straniera mi sento fortunata, nonostante le difficoltà che ho incontrato sono stata accolta da italiani fantastici; mi piace il paese dove abito, me ne sono innamorata, ci sono persone con il cuore pieno di solidarietà e c'è sempre stato qualcuno che mi ha soccorso. 

È vero, l'integrazione in questo paese non è la stessa per tutti gli immigrati e di esperienze ce ne sono molte e molto diverse; talvolta comunque grazie ad alcune iniziative, come quelle offerte dall'ufficio culturale, ne escono di positive. 

Nell'ultimo periodo sono diventata Responsabile della Consulta dei cittadini stranieri del mio comune; un compito molto impegnativo per me, ma cerco, per quanto possibile, di farlo fruttare come spazio per orientare e sostenere gli altri immigrati che scappano da guerre e violenze del proprio paese ed emigrano in cerca di pace. 

Mi manca molto il mio paese ma quando ci vado lo sento quasi straniero. In Italia ho trascorso quasi la metà della mia vita e direi che ho qui tutta la mia vita: il mio lavoro, i mie quattro meravigliosi figli che sono la mia ragione di combattere le difficoltà della vita. 

Sogno un giorno di sfruttare le conoscenze acquisite in Italia per poter sviluppare il mio piccolo villaggio, lì nella lontana Africa, per aiutare i bambini di famiglie in difficoltà a studiare, perché i bambini sono il futuro. 

Io sono scappata dalla povertà … non mi dimentico di chi ha bisogno di un libro da leggere, di un quaderno dove scrivere e di una penna per imparare a scrivere … siamo nel 2017 e non è giusto che ci siano ancora oggi persone che affrontano questo tipo di difficoltà, … sento il compito di fare qualcosa per loro e lo farò finché sono in vita.

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