L'AVVENTURIERA

Storia di Silvia Sarbu
A cura di Gabriela Branca

Mi chiamo Silvia Sarbu, sono nata il 25 settembre 1967 in Romania. Sono cresciuta a Virtescoiu, sono nata in un altro posto, ma sono stata adottata e nel 1970 mi han fatto il certificato di nascita mettendo Virtescoiu. Sono stata adottata a un anno e mezzo e in verità non è stata proprio un’adozione. La mia mamma naturale si era ammalata, aveva me e un’altra figlia più piccola di sette mesi e non poteva curare i figli. Suo marito, il mio babbo, era sempre via, lavorava in un cantiere, e qualcuno si doveva prender cura delle bambine. Mia sorella l’ha presa il nonno materno per un po'. Un cugino della mia mamma ha pensato a me per qualche mese. In realtà lui e sua moglie, non avendo figli, volevano adottare un bambino. Avevano già una certa età: la mamma (perché è diventata lei la mia mamma sicché l’ho sempre chiamata così) aveva 48 anni e il babbo 45. Ma non si decidevano mai: il parente di lui, il parente di lei, il nipote di quello no, era sempre un litigio e non decidevano. Invece io sono arrivata proprio a pennello. La mamma d’origine s’era ripresa, era tornata a casa e mi rivoleva indietro, ma i parenti che mi hanno accudito hanno insistito per tenermi, magari per prova, perché pensavano di adottarmi. La mamma d’origine non voleva, io ero la prima figlia: “magari aspettiamo un pochino ma poi lei torna indietro, voi mi avete dato una mano, ma io la rivoglio indietro”. Però lei dopo poco è rimasta di nuovo incinta, ha fatto un altro figlio e a quel punto, nel ’70 (io ero sempre lì e mi raccontavano che io non volevo tanto ritornare a casa, io mi trovavo bene lì!), dopo tante trattative, mi hanno adottato, lei ha ceduto. Veniva spesso a trovarmi, “tanto siete miei parenti, sicché, visto che volete tanto un bambino e io ne ho un altro…”. Mi hanno adottato con tutti i documenti, sicché non risulta nemmeno dove sono nata. E sono cresciuta là.
Io ho saputo questa storia praticamente quando ho compiuto tredici anni, perché la mamma che mi cresceva era malata anche lei, l’altra stava per morire, aveva un cancro, e disse che voleva raccontarmi tutta la storia perché magari la mamma d’origine sarebbe morta. Me l’han detto a quell’età, tredici anni, fragile e dura, e la faccenda l’ho presa male male, ho sofferto tanto. Sapevo che quella signora a cui non avevo mai detto mamma aveva qualcosa per me, era la cugina dei miei, ma per me era qualcosa di diverso. Io la sentivo diversa. Veniva spesso a passar le vacanze con i bambini, coi miei fratelli, lì da me, non sapendo io che erano i miei fratelli. Io proprio l’adoravo, lei mi faceva regali, tanti regali sempre, eppure economicamente non stava molto bene, ma si vede che io le mancavo, non so. Era l’unica che mi portava una bambola, perché questi altri genitori sì mi accudivano, mi facevano tutto, ma per loro erano cose superflue una bambola, un giocattolo. Solo cose necessarie. Poi ai tempi di Ceausescu c’era durezza, non c’era niente.

Loro erano contadini, la mamma casalinga e il babbo era il responsabile del settore zootecnico nella cooperativa agricola di produzione, una di quelle cooperative forzate. Allora era tutto cooperativizzato. Premetto che questi genitori per me sono stati i miei veri genitori, io li ho sentiti così. La mamma era molto rigida, anche perché lei avrebbe voluto tanto adottare una sua nipote, figlia di sua sorella, mentre il babbo non l’ha voluta perché era più grande, sicché c’è stato un po’ un conflitto sempre, anche se poi alla fine erano d’accordo nell’adottare me, ma lei ha avuto sempre questo dolore dentro e tante volte veniva un po’ fuori. In Romania si usava adottare per aiutare più che altro. Loro, rispetto agli altri loro parenti, stavano meglio economicamente. Non avevano soldi, ma il babbo aveva un lavoro abbastanza buono. Da mangiare c’era, c’era un pezzo di orto, c’era un pezzo di vigna dietro la casa. Faceva il vino, faceva l’uva e a settembre si vendeva. Sicché praticamente non avevano soldi, ma per quel periodo là bastava quel che avevano per vivere. Qualcuno magari aveva meno, qualcuno di più. Dipendeva da che lavoro faceva. In Romania si sapeva questo: se riuscivi ad entrare nella struttura dello Stato dove avevi tanti privilegi, tu stavi benissimo, gli altri no. Insomma erano tutti poveri, ma se avevi un lavoro importante o nel partito, se eri tesserato, ma non tesserato perché avevi la tessera, che tutti avevano la tessera, era obbligatoria, ma se avevi un incarico, se facevi il segretario in comune o se eri il Sindaco o il segretario di partito della zona… Adesso io mi rendo conto che tante volte il mio babbo non dormiva, tante volte la notte quando lui faceva il formaggio, questi venivano e si auto servivano, prendevano le ruote di cacio e partivano, e lui doveva giustificarne la mancanza se arrivava un controllo, altrimenti dicevano “l’hai rubato te”, eppure questi facevano quello volevano, avevano privilegi. Andavano da quello che aveva galline e prendevano galline. Sicché funzionava in questo modo e quel comunismo non era tanto comunismo. Ti facevano il censimento anche ai polli e alle galline, non si potevano ammazzare mucche, si faceva tutto di nascosto, sicché alla fine non mancava niente, tutti si organizzavano e c’era sempre di tutto, ma era contrabbando. Io mangiavo cioccolato per Pasqua e Natale, per dire, arrivava dalla Cina di contrabbando ma solo a Bucarest. Era mercato nero, non si poteva ma c’era e c’erano questi negozi, shop, dove potevano entrare solo questi che avevano privilegi. Per dirtene una: il mio babbo cresceva il maiale e aveva il vino, a Natale e Pasqua andava dai parenti a Bucarest, uno era poliziotto alla guardia non so di chi, uno era cuoco non so dove, e così lui portava in regalo le nostre cose naturali e riportava zucchero, farina, mi portava banane, cioccolato, perché quelli avevano accesso a questi shop dove potevano comprare le cose che non c’erano nel mercato comunista. Le banane poi non le mangiavo perché non mi piacevano: se le mangi una volta all’anno non sai nemmeno cosa sono. C’era l’ananas, l’arancia. Erano negozi specializzati per turisti, dicevano, ma non erano per turisti. Poi c’erano delle mense per persone altolocate, ma sempre con incarichi di partito. Sicché altro che uguaglianza! A me piaceva la teoria dell’uguaglianza, ma non c’era!

Ho fatto i primi otto anni di scuola nel paese dove sono cresciuta. La scuola in Romania è suddivisa in quattro anni di elementari più quattro di medie, non come qui cinque e tre. L’asilo c’è fino a sei anni. Le superiori invece le ho fatte in città, a ventiquattro chilometri, una città grandicella, 100.000 abitanti. Ho fatto la ragioneria, perché seguendo la teoria della famiglia dovevo fare qualcosa di serio, non qualcosa che mi piaceva tanto. A me sarebbe piaciuto magari fare l’insegnante o lavorare nel campo sanitario, ma la scuola non si trovava nella città vicina e i miei non erano d’accordo, dicevano “noi siamo ormai anziani e abbiamo bisogno del tuo aiuto e non possiamo venire lontano nemmeno a trovarti”. La mamma non si spostava più, sicché solo il babbo veniva. Per un po’ di tempo sono andata avanti e indietro, poi sono stata in un collegio, ma non mi trovavo bene, si stava in otto in una camera e non potevo tanto studiare, così poi sono stata da una signora che affittava una stanza e la dividevo con un’altra ragazza.

Mi piaceva tanto andare a scuola, studiare, ma la scuola era molto rigida, tutto era imposto. Facevo ragioneria ma facevo tanto scienze politiche e filosofia, una materia che si fermava solo sui periodi che stavano bene al comunismo, non si studiava tanto indietro. Da Marx e Engels fino ai tempi di Ceausescu, non si parlava d’altro. Erano solo piccoli passaggi sul resto, io non l’ho studiato, non c’erano nemmeno i libri, era tutto nascosto e bruciato, si diceva. La storia vera e la filosofia vera io le ho conosciute solo dopo la Rivoluzione. A quei tempi quello che studiavo credevo fosse vero. A me piaceva tanto leggere e mi capitava ogni tanto un libro di Dumas o di Balzac, libri che non trovavi in biblioteca ma attraverso certe persone o di contrabbando in alcuni ambienti di Bucarest. Qualcuno aveva un mangiacassette, io avevo una radiolina, ma sentivo al massimo Albano, i Ricchi e Poveri, io non ho mai sentito Fabrizio de Andrè, Celentano sì: solo cose che non erano proibite dal sistema. Non sentivi mai una canzone sulla libertà. Non si studiava tanto l’inglese, non c’era la tendenza verso l’Occidente, si studiava un po’ il francese e, anni prima di me, il russo. Insomma eravamo tanto chiusi.

Chi aveva parenti in Occidente veniva perseguitato. Io personalmente non ho subito niente, perché i miei erano contadini, nessun membro della famiglia era scappato e non avevo parenti intellettuali a Bucarest, che quelli a volte combinavano qualcosa, erano più curiosi, volevano sapere. Ma non se ne sapeva nulla, solo una volta da bambina ho sentito di un nostro parente che era studente e non so cosa aveva detto e lo avevano eliminato dalla scuola, rimandandolo a casa in campagna. Si parlava un po’ sottovoce, certe cose non si pronunciavano, tutto era molto nascosto. Anche le barzellette su Ceausescu si dicevano un po’ sottobanco. Sulla prima pagina dei nostri libri di scuola c’era la sua foto e noi gli bucavamo gli occhi e tante volte gli insegnanti ci facevano notare “attenzione, perché se viene qualcuno a controllare i vostri libri…”, perché venivano e ci controllavano i libri, le mani, gli zaini, se eravamo a posto, se avevamo la cravatta.

Alle elementari avevamo la divisa a quadrettini con grambiulino standard e alle superiori c’era un’altra divisa, camicia bianca con bottoni fino al collo. Mai truccata, avevo i capelli lunghi legati in belle trecce e un cerchietto bianco. Tutti sempre composti, dritti. Io stavo sempre dietro perché ero alta. Sarei stata anche davanti, ma siccome ero così brava e tranquilla mi tenevano dietro. E avevamo questo triangolo con la bandiera, quella rossa con la falce e il martello, che odiavo, mi terrorizzava, e si teneva al collo con un anellino… Ora che ricordo mi pigliano i brividi: se ti trovavano a scuola senza di quella te lo scalavano nel voto di condotta. Anche gli insegnanti erano controllati, pochi si permettevano di trasgredire alle regole. Ce n’erano due o tre più libertini che venivano a fare lo stage da lontano e con loro trascuravamo un po’ tutte queste regole. C’era qualcuno più coraggioso, ma veniva sempre perseguitato, anche dai colleghi e dal direttore. Mi ricordo le riunioni, venivano sempre a parlare del partito e tu dovevi sempre applaudire.

E i genitori ci mandavano in chiesa, noi eravamo ortodossi, ma era vietato entrare in chiesa, se ci andavi era in segreto, anche se in verità ci andavano tutti. Era vietato perché il comunismo bandiva tutte le religioni, sicché anche a scuola dichiaravamo che non andavamo in chiesa, ce lo chiedevano e noi bambini si mentiva. Era una società basata sulla menzogna, perché si sapeva che si andava, si sapeva cosa si faceva, ma sui documenti doveva risultare che non andavamo. Anche gli insegnanti andavano in chiesa.

Per noi, crescere in una società con tanta menzogna non è stato un bene, perché magari ci portava anche a cercare le strade più facili, facili per quel modo di vivere, per avere privilegi. A scuola si diceva di studiare studiare studiare perché c’era un censimento e non dovevano risultare ragazzi che non avevano studiato o superato almeno la terza media. E se non facevi le superiori non trovavi nemmeno un lavoro, nemmeno a pulire i cessi. Era una richiesta di cultura che in verità non era cultura: era tutto organizzato per far vedere fuori che la società comunista era perfetta, che tutto funzionava a dovere, che tutto era a posto. Lo studio era poi quello della dottrina. Non era che studiavi quello che volevi o tutto, studiavi quello che ti veniva imposto. Io ho cominciato a capire meglio crescendo, incontrando nuove persone, entrando in ambienti diversi. Per tanti questa società alla fine andava anche bene, perché chi riusciva ad avere un posto buono di lavoro faceva anche una vacanza magari al mare, in montagna, anche se non aveva tanto. Non interessava tanto vedere fuori cosa succedeva, perché l’Occidente era descritto come malvagio, a scuola io ho imparato che tutto il male succedeva in Occidente, che gli operai venivano sfruttati… da noi invece stavano bene?!! Poveretti! Non stavano tanto bene! D’altra parte, rispetto agli intellettuali, gli operai stavano meglio perché avevano più diritti.

A quei tempi, negli anni Ottanta, si diceva che Ceausescu doveva pagare tanti debiti all’estero sicché hanno cominciato a razionare tutto, pane, zucchero, latte. Si aveva la tesserina e l’iscrizione a un certo negozio. Io in città avevo diritto solo di residenza, sicché non potevo avere la razione come gli altri, avevo diritto a mezzo chilo di zucchero e mezzo litro d’olio al mese. Ai contadini non davano l’olio per esempio, perché i contadini dovevano già avere comunque qualcosa! In città per comprare un po’ di formaggio morbido, che non rientrava nella razione, ti alzavi alle quattro di mattina e facevi la fila. Poi magari vedevi qualcuno con privilegi che mangiava una fetta di salame e tu non lo trovavi perché non c’era in negozio… Dai quindici anni ho visto questo e non mi convinceva più niente. Io nella dottrina, nell’uguaglianza, a

quell’epoca ci credevo, ma ero di origine contadina e le differenze a scuola le sentivo. Magari avevo in classe figlie di generali o di membri di partito e vedevo che avevano i jeans, che non esistevano, io non ho mai avuto un paio di jeans. Il fatto di essere contadino in città un pochino pesava. Poi me l’han fatto pesare molto quando ho finito la scuola.

Nel 1986, dopo quattro anni difficili, ho superato gli esami e volevo andare all’università, ma prima dovevo cercarmi un lavoro perché i miei non potevano continuare a mantenermi. A quell’epoca una commissione faceva le spartizioni dei posti di lavoro in base ai voti scolastici. Sicché io speravo, avendo una media molto alta (ero la terza nell’ordine), di ottenere uno dei dieci posti disponibili come commessa, un posto ambito perché significava che tu mangiavi. Ma, per dire quanto era storta quella società, quando la commissione si riunì, un’insegnante di storia, che ho odiato per tanti anni ed era la direttrice in quel momento, sulle spartizioni disse “sai, non si fanno in base alla media quest’anno, si fanno in base alla residenza”! Quindi io, che ero residente sulla carta d’identità nel comune dove ero cresciuta, in città non avevo diritti pieni come gli altri. A questo punto mi ha azzerato proprio, mi ha segato le gambe! Non era giusto, l’avevano fatto sempre in base ai voti, ti davano la possibilità di emergere. Invece quella mi dice “ma tanto, sai, tu ti devi pagare un affitto, fanno fatica a tenerti a scuola”! E io, che avevo sognato una società che mi aiutasse, in quel momento ho capito che non sarebbe stato così! Era la raccomandazione a servire, era che sei figlio di quello o di quell’altro!

Così mi hanno dato una spartizione alla società di assicurazioni, che era dello Stato e aveva agenti nei paesini. Io dovevo andare in giro a fare assicurazioni e se volevo fare l’università cavoli miei! Sono andata in giro per due mesi, ma non riuscivo a tirar su uno stipendio, anche perché era l’86, c’era appena stato un terremoto e la gente non era stata risarcita e nessuno voleva un’assicurazione! Poi non ero nemmeno molto adatta, non so, non mi piaceva e comunque io volevo fare altro, non volevo stare in campagna. Pian piano poi, attraverso una parente, sono riuscita a entrare in una fabbrica a lavorare sulle macchine di calcolo, quelle grandi con schede perforate, come operaia. Siamo entrati in tre per un posto, anche la nipote del direttore e un’altra, allucinante! Abbiamo fatto un esame, io ho preso il voto più alto, ma tanto dovevamo entrare in tre, questo era il ragionamento. Meno male che sono entrata anch’io! Dentro poi non c’era lavoro per tutti e così finivi per fare altro, magari portavi il caffè. Lavoravo per lo Stato, le fabbriche erano tutte statali!

Quell’anno ho fatto l’esame per entrare all’università, pensavo “lavoro con le macchine da calcolo, magari vado a far cibernetica”, anche se in realtà mi piaceva solo la parte economica, ma non sono passata. C’erano pochissimi posti, il livello era tanto alto e ho capito che non faceva nemmeno per me. Son caduta nella fisica. Si entrava con 7.5 e ho avuto

6.5. L’università sarebbe stata gratis dopo, ti davano alloggio e mangiavi nelle mense dello stato. Anche i figli dei contadini potevano emergere, anche se chi emergeva doveva avere poi anche il coraggio di vivere nella menzogna. Anch’io l’ho accettata, ma a un livello diverso, perché non ce n’era tanto bisogno dove lavoravo io, era un lavoro tecnico, dovevo far bene quello. Ho rifatto l’esame e sono entrata all’università senza frequenza nell’ 87, andavo solo per gli esami tre volte all’anno a Bucarest. Ho scelto Finanza, credito e contabilità, che c’entrava anche con gli studi che avevo fatto. Per cinque anni ho fatto così, su e giù per Bucarest. Il treno all’una di mattina, facevo gli esami e tornavo lo stesso giorno per non pagare l’albergo. Non frequentando anche i professori non ti conoscevano e, imparando da sola, tante materie erano difficili, come matematica. Ricordo che ero stata a Bucarest qualche giorno a prender lezioni, ogni tanto i professori facevano delle lezioni per noi. Quel periodo è stato molto faticoso, l’università non me la son goduta, anche perché in quegli anni ho avuto anche tanti problemi in famiglia.

Intanto al lavoro son passata a un livello più alto. La fabbrica produceva impianti per l’industria chimica e io facevo i cataloghi dei prezzi. Al terzo anno di università son passata alla contabilità, ma era sempre gavetta perché ero la più piccola e la più nuova. Si lavorava sempre, il sabato e la domenica facevo la guardia alla fabbrica, perché non rubassero nulla. Noi feste no, non si festeggiavano mai Pasqua e Natale, non esistevano le feste religiose, erano state cancellate dal calendario. E io facevo anche i turni di guardia per altri colleghi per poi poter andare a Bucarest quando avevo bisogno. Non c’erano le guardie pagate, era il personale che lo doveva fare. In quell’anno, l’89, a ottobre, morì la mamma che mi aveva cresciuto. E’ stato un altro momento difficile. E poi a dicembre ci fu la Rivoluzione! Anche se in provincia non si sapeva nemmeno bene cosa stesse succedendo! Solo una volta ho sentito che un ingegnere da noi era sparito.

Premetto una cosa: noi facevamo lavori “volontari”, tra virgolette perché erano forzati. Per esempio s’andava a raccogliere l’uva, o il mais, anche con il ghiaccio sopra. Arrivavano dei pullman o dei camion scoperti che nel freddo ti caricavano anche ogni fine settimana, dipendeva dal tipo di lavoro. Tu stavi zitto perché capivi che non avevi scelta.

I segretari di Partito facevano i rapporti: se in un campo non si raccoglieva venivano penalizzati loro, sicché andavano a cercare gente nelle fabbriche, nelle scuole, tra i militari. Anche da bambina l’ho fatto, si andava già dai 10 anni. E dovevi riempire un certo numero di secchi, c’era una quantità stabilita di lavoro. Quello che faceva il rapporto veniva poi a dire “oggi siamo stati bravi, la scuola tal dei tali ha fatto volontariato e ha raccolto tot” e poi si applaudiva. Cose pazzesche che ho fatto e accettato, perché il mondo per me era quello, non sapevo che c’era un altro mondo, un altro modo di vivere, eh! Anche a casa ero stata cresciuta così rigidamente. Forse avevo anche paura di esprimere le mie idee, le dicevo forse solo di nascosto agli amici. Nella mia famiglia si commentavano le tasse, si, ma era tutto con un bicchiere di vino tra amici sottovoce. Se tu criticavi più di tanto e lo venivano a sapere, tu avevi dei problemi. Sicché era tutto omertà, si potrebbe dire, si accettava quasi tutto perché si doveva vivere tranquilli. Quell’ingegnere aveva detto al segretario “carino, vieni te sotto la neve, vieni a vedere che non possiamo finire oggi, c’è il ghiaccio, è dura la faccenda”. Gli ingegneri erano sempre più coraggiosi, erano stati a Bucarest, una società un po’ più aperta rispetto a quella provinciale l’avevano vista.

Loro si portavano magari una vodka dietro per scaldarsi, trascuravano un po’ le regole, e questo ha risposto anche male al

segretario. Quell’ingegnere sparì e tornò dopo un po’ di tempo che non era più lo stesso. Poi abbiamo saputo: l’avevano rinchiuso e picchiato. Dicevano che era matto, nessuno diceva la verità, nessuno diceva che l’avevano picchiato. E poi venivi emarginato dalla società, non potevi accedere a cariche, nulla. Eri uno con un segno sul libretto di lavoro, uno che aveva disubbidito. Sicché non ti conveniva ribellarti.

Quindi nell’89, quando è iniziato un po’ di movimento, non si sapeva dove e cosa succedeva. Il muro era caduto, ma nessuno sapeva cosa succedeva in Occidente. Era successo che per esempio gli olimpionici, usciti per le Olimpiadi, erano rimasti fuori, ma le famiglie venivano perseguitate. Tanti sono fuggiti, tanti dissidenti ma soprattutto tanti dello spettacolo e dello sport, perché ne avevano la possibilità. Un operaio come faceva? Non poteva andar fuori. Non davano permessi. Potevi andare al massimo in gita in Russia o in Ungheria se potevi permettertelo. Io non l’ho fatto.

I dissidenti sapevano qualcosa dalla radio, c’era Europa Libera e La Voce dell’America, c’eran questi canali clandestini, lo so perché me lo raccontavano, ma io non li ho mai sentiti, a casa si aveva anche paura ad accendere la radio.

Alcuni intellettuali hanno cercato di far qualcosa, ma chi lo sapeva? Dopo la caduta del muro, agli inizi di dicembre, un pastore calvinista, László Tőkés, ha dato inizio a tutto il movimento, a Timisoara, al confine con l’Ungheria. Questo prete ha cominciato a dire in chiesa alle persone “guardate che il mondo si apre, non siamo più soli, possiamo ribellarci, possiamo sconfiggere il comunismo”. Il comunismo era diventato tremendo negli ultimi anni! Fino al ’75 tanti dicevano che vivevano ancora bene, c’era da mangiare. Lo sbaglio più grosso di Ceausescu è stato quello di ridurre alle ossa le persone, alla fame, se no sarebbe durato ancora, perché era tutto un circuito così ben organizzato che uno s’accontentava. Ma d’un tratto era diventato molto difficile: cosa te ne facevi di mezzo chilo di pane se avevi quattro bimbi a casa? E dopo l’86 nemmeno un pacco di margarina avevi, altro che olio, altro che… Nelle grandi città ci s’era buttati sull’industria, Ceausescu aveva grandi sogni, era megalomane. Fece costruire la Casa del Popolo, il secondo palazzo più grande d’Europa, a Bucarest, mobilitando tantissimi militari e studenti, che poi qualcuno è sparito perché non si sapesse che sotterranei aveva fatto. La Casa del Popolo adesso è il Parlamento, allora era la sua casa. Quando ci sono entrata sono rimasta di sasso! Tutto dorato, i rubinetti d’oro, i bunker, c’erano casse piene di cose d’oro. Lui faceva tutto per sé e si sapeva che lui e la sua famiglia facevano una vita tanto agiata e anche altri militari, mentre la gente non aveva da mangiare. Puoi non avere il cioccolato, ma se tu non hai il pane…

Non saremmo gli stessi oggi noi se tutto fosse stato troppo facile!

Posso fare un paragone con Andrei, mio figlio, che non conosce tutte queste cose, che a volte è troppo superficiale. Tanta sofferenza e tanta fatica ci hanno fatto crescere e noi vediamo le cose con occhi diversi. Non tutte le fatiche mi sembrano fatiche, perché qualcuno non può paragonarle, ma noi si. Siamo sicuramente cresciuti più forti. Magari diventi un po’ robotino perché non hai libertà, ma intanto ti rafforzi. Le scelte le facevi in base a quello che c’era. Io ho fatto delle scelte per sopravvivere in base a quello che era il mio mondo. Non mi sono ribellata perché non mi conveniva. Per cosa avrei potuto ribellarmi? Per procurare problemi ai miei famigliari? Per scappare dove? Se avessi parlato male avrebbero perseguitato il mio babbo e non mi passava nemmeno per la testa!

Il 16 dicembre noi non abbiamo saputo niente. In quel momento Ceausescu stava parlando in televisione e si sono spenti tutti i televisori, c’è stato un momento di panico. Poi Ceausescu in televisione disse che era stato un prete a ribellarsi.

Tutta l’armata andò a Timisoara con un figlio e un fratello di Ceausescu e tutti quelli che si erano ribellati uscendo in strada furono ammazzati. Il prete no perché aveva agganci in Vaticano, forse. Noi non sapevamo niente. Poi il 21 dicembre, ricordo che ero al lavoro, Ceausescu ha organizzato a Bucarest nella piazza della Vittoria, dove c’è la Casa del Popolo, la Grande Riunione Nazionale di tutti i capi delle province, erano tutti lì, e ha mobilitato una grande manifestazione con tutti gli operai di Bucarest e delle province. E qui ha sbagliato, perché la gente non è tanto scema, tu la stringi la stringi, sta dicendo “si, si”, ma tutto ha un limite. Nell’Armata c’erano i militari che non facevano la vita degli ufficiali. Sicché la gente che è andata lì è andata non per fare la manifestazione di Ceausescu, ma per ribellarsi! Il bello è stato lì, quando lui ha capito d’aver sbagliato. La gente non lo applaudiva più. Qualcuno da Timisoara è riuscito ad andare a Bucarest e ha cominciato a dire ciò che era successo. Il crollo del muro è servito a smuovere all’interno il paese. E’ avvenuto un veloce passaparola e, non so come, attraverso le dogane, sono arrivati a Bucarest tanti dissidenti. Noi si viveva nell’oscurità, ma c’è stata tanta gente coraggiosa. Io ringrazierò sempre quelli che hanno avuto il coraggio di far questo, di venire a dire le cose pur sapendo di rischiare di essere uccisi. Certo non tutti erano pronti per un cambiamento, ma volevano buttar giù Ceausescu perché non ce la si faceva più.

Mentre c’era la protesta vera s’è formato un gruppo che voleva fare un colpo di stato. E’ venuto fuori dopo anni. Prima sembrava Rivoluzione anche quella. Pensavano solo di ammazzare Ceausescu e i suoi ed inserirsi al posto loro, sempre con un comunismo, nulla di che, non con cambiamenti radicali. Quel giorno comunque s’è sbloccato tutto, quel 21 di dicembre è sbocciata la Rivoluzione. L’Armata, i militari veri, ha girato le armi e non ha più ammazzato le persone.

Ceausescu invece aveva la securitate, persone pagate, arabi, che ammazzavano, venivano in casa. Durante la Rivoluzione moltissima gente è morta, tanti giovani, per mano dei securisti. Ceausescu è fuggito e alcuni hanno fatto un Fronte Nazionale che ha preso il potere, ma era un colpo di stato. Per quello hanno ammazzato così velocemente Ceausescu, il 25, il giorno di Natale. L’hanno trovato nel suo bunker, s’era nascosto, ma l’hanno trovato perché anche qualcuno nell’Armata ha fatto il colpo di stato. Son successi insieme, Rivoluzione e colpo di stato, e qualcuno l’ha capito, qualcun altro no. Tutto succedeva a Bucarest, solo lì, in altre città niente. E la gente veniva ammazzata anche se l’Armata non si muoveva. Io ci son stata dopo, perché avevo gli esami. Avevo un po’ paura ad andarci, a gennaio, ma ci sono andata. Il caos era totale, ma questi han preso le redini. Gli studenti continuavano a protestare e non si capiva perché. Io andavo e tornavo e dicevo ai miei “quelli che protestano sono solo studenti e probabilmente hanno ragione”, e loro dicevano “no,

no, sono contro la Rivoluzione”. Gli studenti e i professori avevano capito che c’era stato un colpo di stato. Iliescu non era per cambiare tutto, ma ha governato per dodici anni. Brucan disse che ci volevano vent’anni per i romeni per uscire da tutto il tran tran del comunismo di 50 anni. E ce ne sono voluti quasi trenta! Ci voleva il lavaggio di cervello della gente per cambiare qualcosa, non si poteva cambiare così velocemente. Sotto Iliescu ci son stati altri morti, nel ’90, l’anno in cui mi sono sposata io. Ho fatto le cose in fretta dopo, visto la Rivoluzione, la morte della mamma, non capivo più niente. 

Non ho avuto tanti fidanzati prima, per il mio babbo uno era uno, te lo prendi e te lo sposi. Il papà di Doru, mio marito, lavorava nella fabbrica e ci ha fatto conoscere. Non era una cosa organizzata, che io non lo volevo conoscere e nemmeno lui voleva conoscere me. Ma alla fine “va beh, dai, vado a conoscere quella ragazza”, è stato un po’ così. Doru stava in città, ha fatto l’università a tempo pieno, un po’ di vita diversa da me. Non volevamo sposarci ma è venuta così. Ci siamo conosciuti a marzo, a luglio abbiamo deciso e a ottobre abbiamo fatto il matrimonio. Anch’io avevo cominciato a vedere le cose in un altro modo, dicevo ai miei che c’era stata la Rivoluzione ma che questi rubavano la Rivoluzione, instauravano un sistema come prima, un po’ più leggero, un capitalismo che non era capitalismo. Nell’estate del ’90 Iliescu, mentre protestavano gli studenti, ha chiamato i minatori della Transilvania, che non capivano nulla, ad ammazzare i giovani, quelli che chiamava hooligans e, diceva, erano contro la Rivoluzione. Poi le verità son venute a galla, ma ci son voluti anni e anni. Ancora non si sanno tutte le cose, la storia vera.

Iliescu aveva creato una specie di parlamento e da fuori venivano sempre dissidenti che si candidavano, ma non li votava nessuno, gli dicevano “voi non avete mangiato il pane in Romania, voi avete mangiato bene in Occidente”. La cretinaggine delle persone di casa mia, eh! Volevano promuovere le persone che avevano sofferto in Romania con loro e non li votavano. Uno solo hanno creduto migliore, Tiriac, un tennista molto bravo che si era rifugiato in Germania, ma anche la Nadia Comaneci, che si era rifugiata in America, perseguitata dal figlio di Ceausescu. Loro erano credibili perché erano i nostri simboli nazionali, dello sport, erano i più amati. Son tornati anche loro, hanno investito in Romania e Tiriac ha cominciato ad aprire banche. Lui disse “altro che 20, ce ne vogliono 50 di anni per cambiare i romeni”. Ci vogliono anni e anni per capire che il mondo è diverso e che tu puoi scegliere, che tu puoi avere la libertà di parola, che cos’è la libertà. Io non sapevo cos’era.

Insomma, mi sono sposata e ho messo subito su un figlio. Ero al terzo anno di università e facevo ancora più fatica ad andare avanti. Lavoravo, studiavo, vivevamo nel mio appartamento in città, una stanza di 40 metri quadri, un corridoio, un bagnetto e una piccola cucina. Andrei si ammalava sempre perché era freddo, non si aveva il riscaldamento, erano così le case ai tempi di Ceausescu. C’era il riscaldamento centralizzato, ma non funzionava mai e nel ’90 non è mica cambiato qualcosa, ma almeno c’era la voglia di vivere, di libertà. Per noi era tutto nuovo! Ma non puoi sapere cos’è la libertà se non l’hai mai avuta! Si privatizzavano tutti, tutti aprivano negozi, negozietti, vendevano caramelle, cose che non c’erano prima cominciavano ad apparire a Bucarest, roba coreana.

Nel ’91 andai a far gli esami fino ad una settimana prima di partorire. Ho partorito a fine giugno. Continuavo ad andare su e giù con il treno e lavoravo. Poi ho smesso con gli esami perché non ce la facevo proprio. Qualcosa cambiava anche in bene e visto che ero neomamma mi hanno permesso di fare un anno in due, sicché il terzo anno l’ho fatto in due anni, ma ce l’ho fatta, alla fine mi sono laureata. Quando Andrei non aveva nemmeno un anno, nel ’92, ci siamo trasferiti in campagna nella casa del mio babbo. Ho venduto quel monolocale perché pensavamo di aprire un negozietto lì a casa. Ci siamo affidati a dei parenti ed è stato un grande sbaglio! Dopo la Rivoluzione si sono ricreati tutti gli organismi di prima. Il mio testimone di nozze, che era stato il mio capo contabile e un comunista convinto, dopo la Rivoluzione è entrato nella Guardia di Finanza e guadagnava meglio. Un furbetto! Noi eravamo giovani, io avevo 23 anni, Doru era cinque anni più vecchio di me, ma avevamo voglia e pensavamo di poter fare qualsiasi cosa. “Facciamo un negozietto col nostro padrino, che sa le nuove leggi”, ancora non avevo finito l’università e tante cose ancora non le sapevo. Abbiamo fatto una società con lui, un’amica sua e altri di un gruppo che conoscevo, ma noi eravamo i più giovani, i meno esperti. Il mio babbo, pover’uomo, anziano, diceva “state attenti con chi vi mettete, a me questo sembra un po’ furbetto”. Io dicevo “ma li conosciamo, all’inizio facciamo una cosa in piccolo, magari via via vediamo”. Economicamente si cominciava a stare malissimo, perché era cambiata la moneta, i prezzi galoppavano, si cominciava in realtà ad avere qualcosa, a trovare le cose, ma non avevi i soldi per comprare, lo stipendio era bassissimo. Per Andrei mi davano un anno al lavoro, sicché per un anno ero pagata, avevo tempo. Doru invece come ingegnere non trovava più niente, le fabbriche erano morte.

Sicché nel ’92 si va in campagna e mi si ammala il babbo e a giugno muore. Tutto così alla svelta, Andrei aveva undici mesi. Per me quell’anno è stato tremendo. Il babbo era quello che nelle mie scelte mi sosteneva sempre. Per la mia mamma invece andare all’università era troppo, avrebbe preferito avermi lì con lei. Ma in verità io non volevo vivere così, volevo avere la mia vita anche se li capivo e gli stavo vicino. Il babbo invece mi dava un po’ di libertà, vigilata eh, ma mi capiva di più. Era venuto anche con me a Bucarest il primo anno a portarmi le valige ed era già vecchio. Capisco quante fatiche faceva anche economicamente. Ma ha visto che io ero in grado, avevo la volontà e mi voleva dare una mano.

Dopo la Rivoluzione ha capito che si sentiva solo, che aveva bisogno di noi vicino. “Tanto tu studi ancora, se vieni a stare un anno o due qua…”, non me lo ha proposto lui, siamo stati noi, ma lui ne era felice. I miei suoceri invece hanno avuto la reazione opposta, perché per loro andare a stare in campagna era una cosa sgradevole, per anni non ci siamo parlati, non venivano neanche a trovarci. Dal punto di vista sociale per loro era un andare indietro. Mia suocera ex insegnante di scuola elementare, tante arie, mio suocero era stato anche sindaco, quindi nel sistema, vedeva il mondo in un’altra maniera. Non hanno accettato la cosa, era colpa mia e del mio babbo. Il mio babbo davvero ci aiutava, se vendeva uva o vino anche l’ultimo soldino lo dava a noi. Nel ’91 io non avevo modo di comprarmi nemmeno un pannolino per Andrei.

Il negozio lo abbiamo fatto ma è stato un fallimento. Siamo riusciti ad aprire, ma altro che stipendio! Noi lavoravamo e qualcun altro prendeva i soldi! Ci dicevano “noi non si può investire così, lo stipendio ora no, magari tra un anno”, intanto noi vivevamo con nulla, la mia maternità e quello che mi dava il babbo. E quando s’è ammalato pagavo caro per portarlo dai dottori. Era apparso il whisky e i dottori volevano quello. Il mio babbo aveva qualche risparmio e quello meno male l’ha lasciato da parte, perché se no non avrei avuto nemmeno i soldi per il suo funerale.

Dopo il fallimento abbiamo provato a metterci con amici, alla fine mi sono affidata ad una mia cugina che… mi ha preso la casa! Era la cugina che voleva adottare la mia mamma e lei lo sapeva e odiava tanto il mio babbo. Io invece lo adoravo! Ecco, era così, e le ripercussioni di questa storia le ho sentite da grande: lei lo ha odiato talmente tanto che ha riversato su di me tutto il suo odio. Io sono stata tanto vicino a lei. Anche quando lavoravo, a me leisembrava una sorella maggiore, non manifestava il suo odio ed io non potevo saperlo. E’ stata furba. Lei desiderava tanto farsi una casa in campagna, aveva venduto e la sua mamma era stata tanto in casa nostra. Il mio babbo non ha adottato lei, ma l’ha aiutata economicamente, ha aiutato la sua mamma che era vedova e i figli non venivano a trovarla. Io andavo a portarle acqua e da mangiare, io, non la figlia che era in città, io, che ero più piccola, tutte le sere quando mia madre cucinava, andavo da sua sorella a portarle da mangiare. L’abbiamo mantenuta per anni e non era così in difficoltà alla fine, perché i figli avevano lavori buoni, anche se se ne fregavano della loro mamma. E dopo anni e anni hanno capito che loro volevano una casina in campagna e io ero in difficoltà, ho fatto un accordo con loro e loro me l’hanno fregata! Avrebbero dovuto aiutarmi economicamente in cambio di un pezzo di terreno lì per farsi la casa, ma poi in verità hanno fatto in modo di prendersi loro la mia casa.

Nel ’93 mi sono laureata e sono entrata alla Tesoreria dello Stato, non dove abitavo prima, in una città più piccola, ma gli stipendi erano una miseria. Doru non trovava niente, gli ingegneri facevano gli autisti, lui ha studiato metallurgia ma le fabbriche non c’erano più, erano state chiuse, disfatte, vendute, dopo tante ruberie il sistema è crollato. Quelli che erano stati dirigenti politici sono diventati direttori di fabbriche e le hanno svendute, prendendole per sé. Il governo dodici anni dopo non ha fatto venir fuori un capitalismo pulito o concorrenziale: era sempre un sistema di privilegi. E io ti dico che quel sistema ha cancellato anche un po’ le anime. Si voleva emergere, farsi una casa, aver da mangiare, avere anche una macchina, cose che non c’erano prima. Prima era sembrato che fossimo tutti uguali, amici, vicini, parenti, dopo no, è venuta fuori una cattiveria, una rabbia. Quando è morto il mio babbo per esempio, mi si sono affacciati tutti i parenti, perché la terra di là era di quello, perché la terra era di quell’altro: volevano prendermi ogni cosa! Perché per loro non ero nemmeno del posto!

Insomma, tra tante difficoltà alla fine Doru è venuto in Italia nel ’94, nella zona di Bergamo, perché lì avevo un fratello col quale al momento avevo dei buoni rapporti. E’ andato in una fattoria e ha capito che il capitalismo non era davvero una bella cosa perché lui era sfruttato, stava in una baracca e lavorava dalla mattina alla notte senza un giorno di pausa. Ci è stato dieci o undici mesi. Intanto, dopo esser rimasta senza casa, mi sono trasferita in città a lavorare in Comune, contabilità e finanze. Abbiamo fatto una vita così, travagliata, agitata. Doru poi ha trovato un lavoro come autista per una che faceva la manager ai tempi di Ceausescu e poi s’è messa in proprio, ma lo sfruttava anche lei da morire. Doru non ha più trovato un lavoro per bene.

Il mio mestiere invece contava di più e sono riuscita a crescere in quegli anni, ho fatto altri esami, ho preso altre patenti, potevo fare delle contabilità private, di quei privati nuovi come me, così, piccoli. Questo per aggiustarmi col lavoro in Comune che era pagato poco. Le facevo di notte. Andrei che era piccino mi chiedeva “perché guadagni così poco se lavori così tanto?”. Comunque ti accorgevi che non era cambiato nulla nell’essenza, era un capitalismo mascherato, i dirigenti e i capi erano sempre quelli, riciclati di qua e di là e tutti cercavano privilegi. In Comune quando compravano una cosa la compravano anche per casa loro. Erano abituati a quel sistema là. O tu accettavi quel modo o te ne andavi. I soldi non mi bastavano nemmeno a pagare l’asilo! Se un bambino ti chiede uno yogurt alla frutta e tu non lo puoi comprare, ti pesa. “Si, ok, ora faccio la grande ispettrice in Comune, magari mi vesto un po’ meglio e socialmente sto

bene, ma non posso comprare da mangiare al mio figliolo?!” Era così! E abbiamo fatto il vino, che avevo ancora la vigna, tutte le cose possibili e impossibili.

Abbiamo praticamente fatto un cambio di case: i suoceri hanno comprato un appartamento più piccolo e ci hanno lasciato il loro, che in verità era dello Stato di prima. Sì, un po’ ci hanno aiutato. Ma dopo il comunismo mi hanno ridato un po’ di terreni e io li ho venduti. E si campava così, ma si campava male. Nel ’97 mi offrirono un lavoro, una di quelle società assicurative nuove, con finanze estere. Offrivano stipendi maggiori e mi sono buttata! E io che credevo di essere incapace di muovermi! Invece sono stata un’avventuriera! Pensavo “provo, se sto sempre qua…”. Cercavo di stare meglio. Sicché ci sono andata. Mi dava tre volte il mio stipendio. Tenevo la contabilità, ma il direttore sparpagliava i soldi e io firmavo e cominciavo a non dormire. Lui li spendeva e non li giustificava. Faceva il battesimo del bambino con i soldi dell’assicurazione, ma era furbo, prima di capire cosa succedeva mi c’è voluto un po’. Imbrogliava quelli della succursale, li invitava, gli offriva delle cene, delle donne, e invece fregava i soldi. Ma con me non è andata bene. Ho detto “così non dormo più” e sono andata una volta a una riunione alla succursale. Loro credevano che fosse tutto a posto. In realtà mi dava molto meno dello stipendio promesso e la filiale non faceva assicurazioni. Lui aveva portato lì l’amica, la moglie, e stavano lì tutto il giorno a far nulla. Sicché non incassavano.

Mi son lasciata sempre amicizie da tutte le parti e quindi son tornata con la coda tra le gambe in Comune. Sono entrata in un ufficio diverso, quello del Controllo finanziario. Il problema era cosa controllavi. Controllavi le scuole, gli ospedali:

rubavano tutti! Cosa vai a controllare?! Noi pagavamo le spese per i materiali di pulizia, non gli stipendi, e il mercato centrale era una mafia. Tu facevi il controllo tanto per farlo, ma dovevi sempre dire che era tutto a posto anche se non era vero. Facevano le strade e non le finivano, i soldi, che magari venivano dalla Comunità Europea, sparivano. E poi c’era il consigliere: quello no, non lo tocchi. Si aveva a che fare con la Corte dei Conti e altre strutture lasciate dal comunismo con tante persone riciclate. Ti ritrovavi a controllare una scuola magari in cinque o sei e non aveva senso. Troppi organismi! E tanti da noi migravano magari alla Corte dei Conti perché venivano pagati meglio. Ma io là non avevo agganci, come nelle banche. Si guadagnava bene al Ministero della Giustizia, ma dove si guadagnava io non avevo parenti e Doru nemmeno. Suo padre era stato nel regime ma non era stato molto carino e anche se aveva conoscenze non gli avrebbero fatto un piacere. Era stato un po’ antipatico con le persone. Ma ora il sistema non era più la raccomandazione, erano i soldi, dovevi pagare. Per esempio se Doru pagava 1.000 euro poteva avere un posto di sottufficiale nella prigione dove gli stipendi erano dieci volte più alti degli stipendi normali. Ma io non avevo 1.000 euro.

Nel 2000 Andrei aveva nove anni e io guadagnavo 80 dollari al mese e uno può dire che poteva essere tanto per i prezzi che c’erano là, ma non è vero, non mi bastavano neanche per pagare le spese del condominio. Doru riusciva magari a fare anche lui 80, a volte 50. Con le contabilità ai privati si arrivava forse a 250 fra tutti in casa, ma non si campava.

Tanta gente venuta in Italia diceva “ma si, faccio le pulizie, faccio la babysitter” e tornava con migliaia di euro, si faceva la casa, mandava i figli a studiare. Avevamo amici che andavano e venivano dall’Italia. Io non ero convinta che fosse giusto rischiare quando un lavoro ce l’avevo e poi Doru c’era stato quell’anno là e diceva “non torno nemmeno morto, piuttosto dormo sui giornali”. Non abbiamo mai avuto davvero l’idea di andarcene.

Nel ’99 la mia amica Adriana, con cui lavoravo in Comune, aveva conosciuto Pino, un italiano di Roma che era venuto in Romania. Un’altra amica era andata in Svezia. C’era tendenza ad andar via: “cavoli, si sta qua per cento euro, andiamo cavolo a far qualcosa, siamo ancora in tempo, che qua in Romania non cambia nulla” e in effetti erano passati undici anni dalla Rivoluzione! Io tanto coraggio non l’avevo, Andrei era piccolo.

Capitò che un gruppo folcloristico, cui facevo i controlli e che la mia direttrice conosceva, aveva organizzato uno spettacolo a Castagneto Carducci, vicino a Livorno. Nel 2000 non si andava fuori senza visto, la Romania non era nella Comunità. Non davano visti perché sapevano che chi andava non tornava! I visti li dovevi comprare! La direttrice ci disse “se qualcuna di voi ha bisogno, io vi porto”. Si sarebbe fatto così: lei ci metteva sulla lista passeggeri e poi ci perdeva per strada. E non ci avrebbe preso soldi, era nostra amica, sapeva che la gente era disperata. Funzionava così, si diceva che chi non tornava s’era perso. Era una responsabilità sua, ma non succedeva niente, si sapeva che era così, tutti i gruppi folcloristici facevano gite per portare fuori la gente! E pigliavano soldi. Ma io mi chiedevo “cosa faccio in Italia, da chi vado, magari mi ritrovo sulla strada e qui ho questo lavoro?!” e così dissi “no, io non ci vado”. Invece le mie amiche Adriana, sua sorella Liliana e Micaela decisero di buttarsi nell’avventura.

Andavano tutte da Pino in verità, lasciando il lavoro per ferie non pagate, senza chiudere il contratto. La direttrice diceva di far così, che se qualcosa andava male almeno potevano tornare a lavorare. Sicché le avventuriere sono state loro!

A Castagneto Carducci sarebbero dovuti andare tutti allo spettacolo e sarebbero stati ospitati in un albergo. Le amiche non sapevano la lingua e Pino non c’era, era a Roma, non sapevano nemmeno cosa le aspettava, come avrebbero fatto ad andare da Pino. Per cui hanno fatto una fatica immensa per fuggire da là con tutti i bagagli. Ma son riuscite! Credo siano andate in una stazione di servizio della benzina e da lì abbiano preso un pullman. Sembra facile, ma c’era paura e pericolo che magari i carabinieri chiedessero i documenti. Il visto era per pochi giorni lì, non per andare in giro per l’Italia. Ma una cosa buona dell’Italia è che ti lascia fare gli affari tuoi, come abbiamo poi fatto anche noi per anni. In verità però tanta bontà permette anche a tanti delinquenti di far così. Loro sono arrivate a Roma e non le ha controllate nessuno. Questo solo in Italia! Ma sai quante ore si stava in dogana in Austria al controllo? Quindici, sedici ore!

Adriana a Roma s’è messa insieme a Pino e ha cominciato a lavorare come babysitter in una famiglia. Mi mandava soldi perché io tenevo le sue evidenze contabili e quelle di sua sorella. Eravamo rimaste che “se tu ti trovi bene e ci puoi dare un appoggio, magari si viene anche noi, ma non nel nulla perché ho paura”. Lei ci chiamava spesso e a un tratto disse “ci sarebbe qualcuno a Tivoli, con tante case, che in verità avrebbe bisogno di una donna, ma per ora può venire Doru, perché ha bisogno di andare di qua e di là per mettere a posto delle case. Magari viene lui e prepara il terreno. Tu hai un lavoro fisso, aspetta un po’ per vedere se la cosa va, se è seria”, mica di rimanere senza documenti, sulla strada.

Questo Eugenio, un ebreo di origine, era ricco sfondato. Ma ci voleva il visto. Siamo riusciti ad ottenerlo attraverso un’agenzia, pagandolo 1500 euro, così ci siamo indebitati di nuovo! I debiti li faccio da una vita, ormai mi sono abituata. Doru disse “io ci vado se tu ci vieni, ma se mi lasci là…”. Andammo dai suoceri, che sarebbero stati d’accordo solo se fossi partita anch’io, e loro dissero “va bene, ora Andrei è più grande (aveva nove anni), vi si può dare una mano, Andrei starà con noi”. Ci hanno aiutato tanto. Gli abbiamo affidato Andrei, abbiamo dovuto fare delle deleghe speciali dal notaio per essere in regola. Io mi ero già informata su una gita, così che quando Doru mi avesse detto “ok, vieni” io sarei andata. Così lui ha pagato 1500 euro e a febbraio è andato da quel tizio. Ma tu vai senza visto e dopo un po’ sei clandestino, lui avrebbe dovuto metterlo in regola, ma non voleva farlo. Credo avesse quaranta case, aveva un filo così di chiavi col nome delle case sopra, ma mandava in giro Doru con pochi soldi, lo pagava poco e Doru non mangiava e mi diceva “vieni qua che lui ha bisogno più di te che di me, a te darebbe uno stipendio per bene”. Ad un certo punto però Doru mi disse che questo Eugenio, che aveva 70 anni, sarebbe venuto in Romania, nella mia città, a cercare la famiglia di un uomo che aveva messo incinta sua figlia, una con un po’ di problemi. Eugenio voleva capire se quell’uomo diceva la verità, se per caso non aveva una famiglia in Romania. Sarebbe arrivato a Bucarest in aereo e io avrei dovuto portarlo da quelli. Intanto avevo cercato questa famiglia, avevo sentito che erano divorziati e quel tizio non era a casa. Poi Doru mi

chiamò per sapere se questo Eugenio era arrivato, ma io non l’avevo sentito né visto. In realtà lui in aereo aveva conosciuto uno che gli aveva raccontato qualcosa, s’era preso paura e appena arrivato era ritornato a casa. Tutta la famiglia era un po’ matta, tranne la moglie, che era in gamba. Doru allora mi disse di andare, ho cercato un’agenzia, ho pagato 1500 euro, mi sono indebitata di nuovo. Ho ancora il biglietto, l’ho tenuto per Andrei come ricordo.

Nel 2000 c’erano i mondiali di calcio in Olanda. L’ambasciata austriaca ci aveva già negato i visti, ma per fortuna non ci aveva scritto “negato” altrimenti non saremmo partiti più. Intanto mi stressavano i suoceri, che non volevano che lasciassi Doru da solo. Son tornata da quello delle gite, che pagava e otteneva visti a Bucarest. Ho ottenuto il visto per i mondiali per l’8 di giugno. Al lavoro ho lasciato una richiesta di ferie non pagate indeterminate. Non avevo mai pensato in verità di andar via da casa mia. L’intenzione comunque era quella di partire, racimolare un po’ di soldi e poi tornare, come tutti. Ma quando son partita ho pensato “non torno più”, perché uscendo da un sistema tu dimentichi, devi ricominciare a studiare, ci sono generazioni nuove, le leggi cambiano. Se io non mi fossi aggiornata e non avessi fatto esami tutti i mesi, non avrei potuto restare al lavoro e non avevo raccomandazioni. E poi io sono stata sconfitta nella mia famiglia d’origine, ho subito tante umiliazioni da parte dei parenti, dolori a non finire, sicché credo, sotto sotto, di aver desiderato di stroncare un po’ le cose e ricominciare da capo. Dimenticare no, perché non si dimentica mai, e a volte soffrivo di più qua, quando sei sradicato torni ai ricordi dell’infanzia. Ma la mia vita non sarebbe stata più la stessa. Se fossi rimasta lì avrei potuto emergere perché ero a un buon punto a livello sociale, ma tornare dopo anni anche col soldino in tasca a cosa sarebbe servito? Avevo voglia di rifarmi una vita in un altro modo. Là senza i miei genitori mi son sentita abbandonata. Quando tornavo da qui tornavo al cimitero, non avevo più altro. Doru vede la vita diversamente: lui non era legato come me alla vita del paese, è cresciuto in città, è stato più libero, ha preso tutto più alla leggera. Come dice mia suocera, è da quando si è sposato con me che ha dei problemi! Lui era un ingegnere, non doveva far lavori di fatica! Io invece l’ho messo a lavorare! Ma cosa avrebbe dovuto fare, rimanere là senza lavoro perché era un ingegnere? Gli uomini non sopportano più di tanto la caduta! I miei suoceri non hanno mai raccontato tanto in giro dei lavori che abbiamo fatto, perché si vergognano! Per loro è una sconfitta che il figlio faccia un lavoro non in sintonia con gli studi fatti. Molto orgogliosi, ma non solo loro: alcuni miei parenti sono venuti a trovarmi qualche anno fa, ma il fatto che lavoravo come cuoca dopo aver tanto studiato loro non sarebbero andati a dirlo in giro là in campagna, avrebbero solo detto che stavo bene. Ma perché devo vergognarmi se ho un lavoro onesto? E la gran parte di quelli usciti sono andati a far lavori di fatica, mica in ufficio! E vai a fare il signore poi a casa? Si sa che lavoro fanno le badanti, lavano anche il culo, ma là si vantano che stanno bene. Io ho detto sempre la verità a casa e non mi sono vergognata. Io non ho fatto la badante perché ho scelto di avere la mia casa, ma sono andata anch’io a curare qualche anziana, ho lavato, pulito e fatto tutti i lavori. Ma io sono venuta preparata a farli, mi sono preparata nella mente per non fare più la vita di prima. Credo che senza questa preparazione avrei subito uno shock. Comunque sia, è difficile accettare, perché se cresci in un certo modo ti rimane dentro quel modo. Se tu lavori e vieni trattato bene, da uomo, va bene, ma se uno ti tratta come una merda perché fai un lavoro così, soffri tanto. Io ho sofferto poi quando, pur sapendo quanto avevo fatto, mi hanno usata, mi hanno trattata come una schiava.

Sono arrivata l’8 di giugno a Roma, andando alla partita di non so dove, ma il pullman ha fatto un giro a Roma! Se ci fermavano ci facevano tornare a casa! Era un pullman di gente che veniva tutta a Roma! L’autista ti lasciava a Tiburtina e scappava, tornava in Romania col pullman vuoto! Ti chiedevano 1500 euro perché pagavano anche in dogana. Non riuscendo a pagare subito, noi per i 1500 euro di Doru e i 1500 miei abbiamo poi pagato 8000 euro! Li ho pagati in un anno alla fine con gli interessi!

Insomma mi han lasciato a Tiburtina, si faceva buio e non arrivava nessuno. Io ero stanca dopo due giorni di pullman. In Austria avevo pagato una multa perché avevo portato le sigarette per Doru e me le avevano confiscate: 150 marchi, tutti i miei soldi. Io non sapevo, quel cretino dell’autista mi aveva detto che potevo portare dieci pacchetti di sigarette, ma io li ho lasciati nel bagaglio e lui mi ha detto che avrei dovuto darli a lui o metterli sparsi, e dove sparsi?! Quando hanno aperto la mia borsa e han trovato tutte quelle sigarette, mi han buttato in giro tutto, anche le mutande, e avrebbero potuto rimandarci indietro e quelli sul pullman mi avrebbero ammazzato!

Alla fine a Tiburtina arriva Doru con Eugenio con una macchinona e Doru mi dice che ci porta alla sua casa al mare, ad Anzio. Doveva affittarla sicché si doveva pulire la casa. Sai quanto ho dormito io? Credo nemmeno un’ora e penso “cavolo, se questa è l’Italia che fo io, non riesco a reggere così!”. In due giorni abbiamo pulito tutta quella casa. Poi chiami a casa e dici “sto bene, sono al mare”, eh! Poi parli col figliolo e parli ma ti vien voglia di urlare! Mi veniva solo da piangere, ero stanca, sfinita. Sapevo che sarei andata a pulire, ma pensavo di organizzarmi con un letto, invece è stato tutto caotico. Poi da lì ci ha riportato in una casa quasi centrale a Roma, a Tor Vergata, una strada residenziale, c’era il carabiniere all’entrata della strada. Quando l’ho visto mi son spaventata e invece lui ha fatto finta di niente, niente! La casa era immensa, con quarantadue stanze, a metà con un fratello, in litigio da anni, che aveva una casa uguale dall’altra parte della strada. Ci teneva nascosti nel sotterraneo, nessuno doveva sapere che eravamo lì! In realtà lui voleva fare un bed & breakfast in quella casa, l’aveva divisa in tanti piccoli appartamentini, ma non riusciva ad ottenere i permessi, perché su quella strada ce n’erano tanti. Ma lui voleva usarmi a Tivoli nella casa dove abitavano loro, una casa di due appartamenti, uno di una figlia, e nell'appartamento dell’altra figlia. Se ti dico che vita facevo! Dovevo prendere la mattina presto un pullman e cambiare a Grotta Celone. All’inizio mi son persa, non sapevo né parlare né nulla. Prima di venire avevo studiato qualcosa di italiano sui libri, ma non è lo stesso che parlare. Avrei dovuto dire all’autista di farmi scendere, ma non sapevo dirlo e non sapevo nemmeno dove scendere! Ci sono andata subito il giorno dopo, ho dormito quella prima

notte a Roma in quell’appartamento sotterraneo non del tutto sistemato, c’era un materasso, un tavolino, il bagno c’era, ma diceva di non far troppo spesso la doccia perché si consumava troppa acqua. E questo era ricco, anche se a vederlo avresti detto che era il più povero del mondo: scarpe rotte, pieno di polvere, camicia stropicciata, macchina rotta, per non far vedere che aveva soldi! Beveva la birra calda del supermercato, non entrava mai in un bar a prendere un caffè perché costava. Insomma, non mi ero nemmeno svegliata bene, ma c’è un po’ di adrenalina che non so nemmeno da dove ti viene, dalla paura, dalla disperazione, fai le cose e non sai nemmeno come. Dopo aver cambiato pullman, facevo via Prenestina, dove stavano tutte le prostitute, vedevi nigeriane, rumene, albanesi, per tutta la via eh! Cambiavo tre volte l’autobus per andare a Tivoli tutte le mattine. Arrivavo alle 9 e avevo da pulire i tre appartamenti. Finivo alle quattro. Mi davano un milione di lire. Intanto Doru continuava a fare piccoli lavoretti per lui, faceva una vita d’inferno sbattuto di qua e di là.

Allora noi eravamo già clandestini, il visto durava solo un mese, sicché cominciavo ad aver paura che mi fermassero e quel tizio non parlava mai di fare i documenti.

Il lavoro poi s’è appesantito perché c’era la figlia che stava nell’appartamento vicino a loro, Mariangela, quella che aveva fatto un figlio con il romeno, che non era tanto a posto e mi lasciava la bambina. La moglie di Eugenio andava al negozio che aveva in centro a Villa Adriana di oggetti da regalo. Tutto lo spazio commerciale era loro. La figlia più normale gestiva il negozio con la mamma. L’altra restava a casa e rubava il cibo dal frigo della mamma. Mi dicevano di aiutarla se aveva bisogno, ma con la bambina spesso al collo non riuscivo a gestire la situazione: ero nuova, non sapevo parlar bene, mi mandava a comprar le cose e lasciavo lì tutto, uscivo… Non riuscivo mai a finire di pulire! E “mi serve quella cosa in farmacia”, e “mi serve la lattuga”… Ricordo che ero andata al mercato e non sapevo cosa voleva dire “lattuga”: mi vergognavo ma chiedevo in giro, che c’erano anche tante romene. Uno voleva farmi salire in macchina, mi disse “sei rumena? Sali”, gli dissi “si, son rumena, ma non sono puttana!”. Adesso rido, ma erano umiliazioni! Son tornata a casa e mi chiedevo “ma dove sono finita? Che ci faccio qui?”. Ma ormai non potevo tornare indietro, mi ero indebitata e dovevo pagare tutti quei soldi. L’importante era che avevo da lavorare, comunque sia. L’importante era farsi fare i documenti.

Sarebbe bastato che Eugenio fosse andato alla Prefettura a dire che aveva bisogno di noi, noi saremmo tornati in Romania e poi rientrati in Italia per sua richiesta. Ma lui lo diceva, ma non lo voleva fare, perché gli conveniva non avere responsabilità, non pagare tasse. Tutti lavoravano in nero. Sicché sono stata lì tre mesi. Correvo come una matta e arrivavo a casa quasi alle nove. Un giorno mi sono persa e mi sono spaventata da morire: non ho saputo dire all’autista che dovevo scendere in un posto e sono andata in un altro e non trovavo niente per ritornare. Era notte e Doru si preoccupava. Non avevo il cellulare. Son tornata alle dieci. Doru era disperato.

Poi ho ritrovato Adriana e siamo stati più tranquilli: loro dicevano che lavoro tanto ce n’era, qualcosa riuscivamo a mandare a casa. Avevo solo la domenica libera, ma poi nemmeno quella perché mi prendeva per stare con la figlia. Il problema era che non mi pagavano niente in più, anche se per loro diventavo un po’ indispensabile. Invece di Doru dicevano che non avevano bisogno.

Ma ad agosto, prima di andare alla casa al mare, è arrivato il mio disgraziato fratello da Milano, che già da anni aveva i documenti e nel ’90 s’era sposato una stronza rumena: aveva saputo che eravamo in Italia e ci aveva fatto su un pensiero. Avevano un bambino piccolo, appena nato, e si volevano spostare da Milano a Firenze, vicino a San Casciano. Avevano conosciuto una coppia, lui di Milano e lei francese, che aveva comprato lì una villa a Talenti, una bellissima villa antica che avevano restaurato per far convegni e turismo. Mio fratello ha lasciato Milano per andare a fare il custode di questa villa, assunti tutti e due, eh! Lei faceva pulizie, un po’ la portinaia quando arrivava qualcuno e un po’ la cameriera quando c’erano i convegni. Non facevano lavori pesanti, c’erano gli operai, lui gestiva la casa, avevano stipendi buoni. Io me lo sarei sognato in quel momento che ero nella merda, col figliolo in Romania che piangevo tutte le sere.

Insomma lui viene a trovarmi a Roma, ero veramente felice! Adriana mi aveva detto di stare attenta che un pochino le cose cambiano fuori. Ma io avevo avuto ottimi rapporti con lui a casa! Lui era venuto a Roma per farmi una proposta: “Guarda, noi da Milano ci spostiamo là, abbiamo il bambino, magari venite a stare vicino a noi, vi troviamo noi lavoro che in provincia di Firenze ce n’é, e intanto mi aiuti un po’ col bimbo”. L’avrei aiutato volentieri gratis, ma io avevo bisogno di denaro, di lavorare, avevo i debiti in Romania, Andrei da portare qua, sicché gli dissi che dovevo sistemarmi pian piano in una situazione mia, sarei andata da lui se lui mi avesse trovato un lavoro vero, altrimenti sarei stata a Roma ad aspettare i documenti. Doru però diceva che forse sarebbe stato meglio là, mi disse di andare a settembre al mare e poi di vedere se si trovava un lavoro là, anche lui si fidava di mio fratello perché l’aveva conosciuto prima. Adriana poi diceva che Eugenio non sembrava intenzionato davvero a fare i documenti e che Roma era piena di rumeni che si dividevano gli appartamenti e lasciavano i figli in Romania per poi tornarci. Ma io volevo portare Andrei qua con me, ho sempre voluto che vivesse con me! Doru ad agosto non aveva nulla da fare, così intanto poteva andare da mio fratello e cercare una sistemazione. La moglie di Eugenio s’era affezionata a me, s’era accorta che ero di fiducia, che non avrebbe trovato tutti i giorni una persona così, ma anche se mi avesse fatto i documenti alla fine non avevo una casa mia, dovevo andare di qua e di là e Doru non avrebbe lavorato molto. Così è andato da mio fratello e giuro che la delusione più grande da quando sono venuta in Italia l’ho avuta da mio fratello!!!

A fine agosto, con un caldo di quelli tremendi, Doru prende il treno e va a Firenze. Mio fratello lo va a prendere, ma non lo porta a casa sua, come pensa Doru. Lo porta in un maneggio lontano tre chilometri da Talenti, con una strada brutta, senza linee di trasporto pubblico. Nel maneggio lavorano altri romeni, che vivono in una baracca. Mio fratello gli dice “ho parlato con i proprietari, c’è bisogno uno per le stalle perché mio suocero non ce la fa” e lo piomba là! Sai come ha

dormito Doru la prima notte? Su una branda sotto le stelle senza nemmeno una coperta. Funzionava che quel gruppetto di rumeni che lavorava lì si portava a vicenda i parenti e mio fratello si era intromesso portando il suocero. Il caso ha voluto che quello che gestiva i lavori aveva lavorato dove lavoravamo noi in Romania. Prima si è offeso perché mio fratello aveva portato un altro, poi quando ha saputo chi era l’hanno accettato.

Intanto io ho finito il mese ad Anzio, che è stato un incubo, perché ero da sola con la figlia di Eugenio sempre depressa, sempre a letto, a volte con un coltello in giro per casa, e la sua bambina. Mi veniva male a pensare che io senza documenti ero responsabile di quelle lì: e se gli fosse capitato qualcosa?! Avevo paura, ma avevo promesso alla sua mamma che le avrei accudite fino alla fine di settembre: le facevo la spesa, portavo la bambina al mare, non le potevo lasciar sole un momento.

Così poi ho raggiunto mio fratello. Praticamente lui mi voleva come babysitter per il suo bambino. Ma lui aveva paura a tenerci lì nella villa perché eravamo clandestini. In realtà voleva che seguissi il figlio e la moglie. Mi ha messo nel mezzo senza nemmeno dirmi sinceramente che dubitava di lei, che voleva una persona di fiducia che gli riferisse quel che accadeva. Sua moglie non faceva niente dalla mattina alla sera, girava per quella casona a chiacchierare, io stavo col loro bambino senza esser pagata. L’idea era di trovarmi qualche altro lavoro, ma lui non me lo trovava perché non era nel suo interesse, anche se non mi poteva nemmeno tenere là. Sicché mi veniva a prendere la mattina e la sera mi riportava al maneggio. E non arrivava nemmeno fino al maneggio perché la strada era brutta, avrebbe sporcato la macchina e sua moglie gli avrebbe brontolato!

Doru con gli altri stava sistemando una stalla di tre stanze dove usavano i bancali come letti, l’han rifatta di cemento, abusiva, la casa degli stallieri. S’era improvvisata una cucina dove io cucinavo, c’era un frigo che ho preso dal cassonetto. Io portavo il mangiare e spariva, era tutto così. E io lavoravo per tutti là. Ma quando sono arrivata la casina non era finita e non potevo stare sotto il cielo a ottobre, la casina l’abbiamo finita a dicembre. Intanto c’era una roulotte dove stava un altro ragazzo rumeno della mia città, uno che non si lavava mai, una sporcizia tremenda, ma ci ha ospitati dentro. La roulotte aveva un letto più grande e un angolino con una panchina. Su quella panchina abbiamo dormito io e Doru per tre mesi. T’immagini? Uno coi piedi da una parte e l’altro dall’altra! Quello è stato il mio incubo, lì ho pensato proprio “cosa ci faccio qui?!”. Uscivo di nascosto per andare in bagno, un po’ più lontano, per non farmi vedere dai padroni del maneggio: Doru gli aveva detto che sarei arrivata ma che sarei stata da mio fratello. Io parlavo con mio fratello, gli dicevo che non era stato obbligato a portarci lì, ma che noi come potevamo stare lì così? Io ero schiava di sua moglie, che si preparava, usciva, puliva solo una volta alla settimana con un’altra. Tante volte capita un buon lavoro a chi non lo merita. Facevano la vita dei signori e invece di dare una mano a me hanno pensato di sfruttarmi. Io glielo dissi chiaro e tondo che loro non avevano bisogno di una babysitter, che potevano gestirselo da soli il figlio e che io se non me lo dava lui un lavoro me lo sarei cercato. Era il 2000 e lavoro ancora se ne trovava in zona. Alla fine ho cercato e sono andata sulle colline di Scandicci e mio fratello se l’è presa perché diceva che gli avevo promesso di stare col bambino, ma io non potevo promettere senza un lavoro pagato e con mio figlio lasciato in Romania. Ora mio fratello sta di nuovo a Milano, non so perché hanno lasciato quella villa in cui stavano tanto bene. Hanno comprato una casa nella zona di Milano e lui è andato a fare il camionista mentre lei stava sempre a casa. Il figlio quasi non riconosceva più il suo babbo. Lei ora sta nello stesso paese con un altro e con il figlio. Ma mio fratello ancora non s’è svegliato!

A Scandicci avevo trovato lavoro da gennaio in una villa: lei ex modella, lui disegnatore di vestiti sportivi. Lei non faceva nulla. Io stavo sotto la piscina, in una stanza con bagnetto. Stavo relativamente bene, facevo la vita da domestica, pulivo la casa, pulivo i bambini, lei ci portava in macchina e mi lasciava coi figli a pattinaggio, di qua e di là. Mi dava mezza giornata libera, per un milione di lire. Non era tanto, ma era difficile per i bambini, che erano matti, sputavano in faccia ai genitori, spalmavano la pupù sui muri. Gli lasciavano fare quello che volevano! Io ho pensato “se i bambini italiani sono così…non ci credo, non è possibile!”.

Ma ero sempre clandestina. La sera non dormivo dal pensiero e desiderio di vedere Andrei. Ero stressata, ma avevo un obiettivo e quando ce l’ho soffro di meno. Doru lo vedevo solo la domenica: siamo venuti insieme in Italia, ma in verità insieme siamo stati poco. Intanto i padroni del maneggio chiedevano sempre a Doru “come si trova tua moglie?”, sapevano che lavoravo a Scandicci, anche la ex modella portava lì ogni tanto i bambini a cavallo, la conoscevano. Doru in quel periodo stava crollando, era fatica immensa pulire cinquantacinque stalle tutti i giorni. E certi facevano i furbi e se la squagliavano. Per i proprietari il maneggio era un hobby, loro vendevano automobili, ma si erano accorti che Doru lavorava molto e gli avevano aumentato la paga. Allora Doru prendeva sul milione e ottocento, solo lunedì era giorno di pausa. Faceva fatica, ma almeno guadagnava, anche se sapeva che era un lavoro che non poteva fare per tanto.

Loro a un tratto dissero a Doru che volevano parlarmi, che magari mi avrebbero trovato un lavoro lì, così non avrei fatto tutti quei viaggi. Lo vedevano sempre solo, io quando arrivavo pulivo la casina e gli portavo la spesa e via! Così andai a parlare con loro e mi proposero di occuparmi del bar, di gestirlo per bene facendo anche cene e pranzi. Mi proposero provvisoriamente lo stesso stipendio di Scandicci, in attesa di vedere come sarebbe andata. L’unica cosa che chiesi fu di gestirlo da sola, perché Doru mi aveva detto che lì tutti avevano le chiavi e tutti andavano e venivano. Dissi che avevo studiato, che ero in grado di prendermene la responsabilità, e loro accettarono. Così dopo tre mesi lasciai Scandicci e tornai al maneggio a gestire il baretto. E quel barettino poi ha lavorato! Lì ho imparato a cucinare, perché non conoscevo i piatti italiani. Imparavo dalla proprietaria del maneggio, dalla sua mamma, dalla suocera, che mi spiegavano le ricette. Io leggevo tanto, non avevo radio né televisione, ma chiedevo ai soci le riviste e ne compravo da tutte le parti: ho cominciato a imparare l’italiano così, leggendo. Ho fatto da mangiare anche per trecento persone lì e ogni giorno promuovevo qualcosa di nuovo e imparavo. Ci ha fatto anche dei soldi la proprietaria con quel baretto!

In regola non mi hanno messo perché non c’era ancora la sanatoria, ma sono stata lì due anni. Il lavoro mi piaceva. La parte brutta era che non vedevo ormai Andrei da tanto tempo. Lavoravo come un ciuco ma non ridevo più. Quando l’ho rivisto è stato traumatico. Andrei è venuto dopo due anni in gita con un gruppo sportivo di judo, guidato da uno che aveva lavorato con me e conoscevo bene. E’ potuto restare un mese con noi nel maneggio, poi l’hanno ripreso loro. Non potevo tenerlo lì.

Ormai ero diventata l’uomo di fiducia della proprietaria, avevamo buonissimi rapporti, mi lasciava alla Metro con mille euro in tasca… Ma eravamo sempre senza documenti! E un giorno che sono arrivati dei vigili per controllare altre cose, io mi son nascosta per tutto il tempo nel baretto e Doru e gli altri nel casotto della giuria al maneggio.

Là non avevo una vita mia, anche di notte mi chiamavano se volevano un panino, ero a loro disposizione, anche se qualcuno a volte mi regalava dei fiori o un panettone, ma più che altro perché gli faceva comodo. I padroni dei cavalli facevano pipì accanto a Doru nella stalla. Quel mondo di soldi ha poca umanità. Avevano più attenzione per il cane o il cavallo che per noi. Sicché non era un ambiente dove vivere con la famiglia, con un figlio. Ma sono riuscita a pagare tutti i miei debiti, a mandare soldi ad Andrei e comprarmi un terreno in Romania. Non ero tanto felice, ma insieme guadagnavamo quasi tre milioni, ho fatto un po’ di soldini. Da questo punto di vista siamo stati bene.

Al maneggio poi c’erano tante ragazze, soprattutto svedesi, che lavoravano stagionalmente. Lì ho conosciuto Chiara che puliva i cavalli, lo faceva per passione e siamo diventate amiche. Suo marito Lorenzo è geologo e i suoi genitori hanno casa a Cerbaia. Loro mi hanno alleggerito la situazione. Da quando li ho conosciuti tutti i lunedì ci portavano a casa loro, si mangiava insieme, ci portavano in giro. Tutte le feste le abbiamo trascorse con la loro famiglia, meravigliosa! Abbiamo mantenuto i rapporti. Ci consideravano di casa, di famiglia. E l’amicizia è rimasta, ci seguono ancora, mi piace tanto questa cosa!

Al maneggio poi conosco la proprietaria di un agriturismo a San Godenzo, che mi sembrava più umana di altri. Lei veniva e stava sempre con me a parlare. Ci chiedeva se avevamo bisogno di sigarette, di pane, li prendeva in paese quando veniva. Per Pasqua e Natale magari ci regalava un panettone o a volte qualche soldino. Lei sapeva che volevo sistemarmi, trovare una casa dove portare Andrei, un contesto normale dove inserirlo. Doru diceva che non ce la faceva più a stare in Italia a far lavori così pesanti, ma ormai erano passati due anni, in Romania le cose erano cambiate, cosa tornavamo a fare? Quell’anno, nel 2001, avevano fatto la sanatoria e quindi potevamo esser messi in regola. Quelli del maneggio volevano metterci in regola. Ma la padrona dell'agriturismo ci fece una proposta: ci avrebbe dato una casa a San Godenzo, noi due ci saremmo occupati dell’agriturismo e ci avrebbe assunto. Pensava di ingrandirsi, di portare là il cavallo, magari altri cavalli, di sistemare la stalla, le case. Ci disse “io mi fiderei a prendervi, mi piace come lavorate”. Le dissi che volevo una sicurezza, che già avevo avuto avventure e non potevo averne tutta la vita, volevo sistemarmi e portare qui il figlio, che quello era già il terzo anno e non volevo più andare avanti così.

Chiesi consiglio al mio amico Lorenzo, che conosceva le leggi e conosceva un po’ anche lei. “Mi sembra una abbastanza chiara nelle cose, non è che parla per parlare” disse. La legge era uscita e si sapeva quanto di tasse per metterci in regola si sarebbe dovuto pagare: 700 euro per Doru e 400 per me, lui come operaio e io come domestica. I nostri soldi e risparmi li tenevamo da Lorenzo e Chiara. Dissi a Lorenzo che noi avremmo pagato le tasse ma volevamo un incontro con la padrona dell'agriturismo in cui ci fosse anche lui, un italiano, per poter essere sicuri di non sbagliare, di non ritrovarci sulla strada. Così abbiamo parlato tutti insieme ed è stata la mia salvezza. Abbiamo pagato subito i 1100 euro, pagato la nostra libertà, il nostro documento di permesso di soggiorno, la nostra indipendenza, una sensazione incredibile, e detto che, non avendo ancora visto nulla, noi, non essendo comunque in debito con la padrona, se non ci fossimo trovati bene non saremmo stati obbligati a restare. Sicché abbiamo fatto questo accordo e nel settembre 2002 siamo venuti quassù. Ci ha portati Lorenzo. La casa era occupata, aveva affittuari fino all’inizio di novembre. Così ci ha ospitati provvisoriamente nella villa, dove vivono altri suoi parenti. Ma lei non s’era organizzata più di tanto, non aveva chiarito le cose coi parenti e ha creato un po’ di confusione. Ci ha messo in una posizione un po’ ingrata, noi non sapevamo bene come stavano le cose e non è andata bene perché ognuno ne diceva una, nell’altra casa non avevo nemmeno una stufa, era piena di spifferi e ci ha pagato un solo stipendio di 1000 euro per due. Abbiamo restaurato le case. Non ci ha dato il lavoro di agriturismo, io ho fatto il muratore, l’imbianchino, il manovale tutto l’inverno, lì la schiena davvero me la sono rovinata! Ho anche conosciuto la comunità del posto, ma è stato un altro inciampo avere l’appoggio delle persone e non avere gli affari chiari con la padrona. Piano piano, ho conosciuto persone come la Giovanna che m’han dato una mano, fino ad allora molti italiani normali non li avevo ancora conosciuti, più che altro italiani con soldi e tanta superficialità, senza rispetto per gli altri. Quando la Giovanna mi ha portato una stufa è stato un momento imbarazzante, ma mi ha impressionato davvero tanto: uno che viene e ti porta una stufa comprata coi suoi soldi, uno che ha un reddito normale, uno stipendio, non uno pieno di soldi! L’avesse fatto la padrona di casa, lavoravo per lei, sarebbe stato giusto! Ero contenta di aver trovato persone come la Giovanna!

Per quella Pasqua era venuto don Bruno a benedire le case e ci hanno mandato ad aprire l'agriturismo per farlo benedire. Così abbiamo chiesto a don Bruno se poteva venire a benedire anche la nostra casa e abbiamo parlato un po’, gli abbiamo raccontato del figlio e poi volevamo pagarlo: quando ha sentito questo ci ha detto “ma che pagare?!”.

Quell’inverno Andrei era venuto per le vacanze, l’aveva portato mia cognata e Cristian, il marito della Giovanna, era andato a prenderlo all’autostrada. Avevano capito un po’ la nostra situazione, la nostra storia, che volevamo andar via di lì e tanti ci hanno dato una mano. Quando sono usciti i nostri documenti ad aprile siamo andati via, il 13 maggio eravamo a Castagno (frazione di San Godenzo). I genitori di Lorenzo conoscevano persone di Castagno, alle quali dissero “guardate

che arriva una coppia di romeni lì, noi li conosciamo bene, sono persone di fiducia, sicuramente avranno bisogno, chissà in che situazione si troveranno, dategli una mano perché sono persone a posto”. Don Bruno ci ha cercato la casa, Cristian è andato a cercare una macchina e abbiamo comprato una Polo rossa con 1000 euro. Ho preparato tutte le carte e a giugno son riuscita a portare qui Andrei. Intanto la Giovanna chiedeva un po’ in giro per aiutarci a trovare lavoro e si è subito trovato per Doru! Insomma stavo conoscendo la parte bella degli italiani, quella bella, bellissima, che non credevo ci fosse! Prima era solo una coppia di amici, ora erano tante persone! E diverse, con uno stipendio, che facevano fatica come me, disposte a dare una mano.

Poi ho conosciuto il sindaco Alessandra Pini, perché mi servivano i documenti. La casa che ci avevano affittato era troppo piccola, per la questura non andava bene. E dovevo avere uno stipendio se volevo portare qui Andrei. Sono andata col treno a fare il giro delle fabbriche a Scopeti. Mi ero presentata dicendo “non so fare, ma imparo”, lasciando i numeri della Giovanna, di Morando e di Don Bruno. Da anni loro sono i miei punti di riferimento. Poi la Giovanna mi chiama e mi dice “ ho sentito uno, vuole che vai a fare una prova”: sono andata e dopo un mese ero assunta a tempo indeterminato! Sono stata cinque anni in una pelletteria a fare cinture. È che io non volevo far la pellettiera! La mia schiena la sentivo peggiorare là al banco, in posizione fissa, per me erano dolori a volte da impazzire. Ho iniziato nel 2003 e nel 2004 mi sono operata perché mi peggioravano i dolori. Ho alzato il banco, ma niente. Ho chiesto di ridurre l’orario a sei ore, non ce la facevo a fare otto ore così. Intanto però il 2003 è stato il nostro anno migliore: cose risolte, casa per conto proprio, che abbiamo sistemato noi perché rientrasse nella metratura richiesta. Andrei ha dormito per tre anni nella soffitta, con un mobile preso ai cassonetti, ma era una meraviglia! Il sindaco fece rientrare la casa in una legge particolare essendo casa di montagna: se uno vuole aiutarti la legge giusta la trova!

In Questura ci andai tre volte e ogni volta c’era un funzionario diverso. Là ti trattano un po’ come una bestia. Avevo chiesto la lista delle cose da portare, che magari la prima volta non avevo capito bene. Ma ogni volta uno diverso mi chiedeva qualcosa in più e io gli spiegavo che venivo da Castagno, che lavoravo a Scopeti, che venivo in treno e dovevo chiedere un permesso per tutta la giornata per venire e non potevo continuare a chiedere permessi. “Se non le va bene perché non è rimasta a casa sua?” mi ha detto uno. Quel giorno ho pianto davvero perché ero sfinita. In Questura non davano nemmeno l’appuntamento, alle tre Doru mi lasciava lì e andava a lavorare, alle quattro c’era già la fila di persone che aspettavano le otto che aprissero gli uffici! E dopo tutta la giornata nemmeno con la lista arrivavo al dunque, così ho dovuto risolvere la cosa alla maniera romena: chiedendo aiuto. Il sindaco mi ha messo in contatto con un’associazione di volontari per l’immigrazione, è venuto ad accompagnarmi un ragazzo, avevo gli stessi documenti, lui ha detto “sono con la signora per il ricongiungimento con il figlio” e in cinque minuti l’ho risolta! Sicché, voglio dire, avevo già a posto i documenti un mese prima!

Insomma Andrei a giugno è venuto qui regolarmente, aveva il permesso di soggiorno, quell’anno ha cominciato ad andare a scuola qui, alle medie. Andrei era contento di venire qui, non sapeva bene dove andava, dopo ha capito che era un posto un po’ disagiato, lui arrivava da una città con centomila abitanti, andava al parco, andava a lezione di inglese, lui non ha sentito tanto il peso dei nostri anni, lui aveva tutto, gli mancavamo solo noi, ha detto. I soldi non gli mancavano perché gliene ho sempre mandati. Inviavo pacchetti, vestiti, tutto quello che voleva. Desideravo che lui condividesse la nostra storia, per questo l’ho fatto venire qui. Ci son coppie che restano anche vent’anni e lasciano i figli là, che ricevono e basta senza rendersi conto di che vita si fa qui. Io ho voluto fargli fare una vita normale. Nella paura che venisse discriminato, ho cercato di non fargli mancare nulla, anche se magari il panino glielo davo da casa. Non è colpa sua se abbiamo fatto delle scelte, ma a volte mi arrabbio con lui perché, nonostante io abbia cercato di non farlo sentire in imbarazzo con gli altri pagandogli tutte le gite e dandogli tutto l’occorrente, lui a volte vuole di più: e io gli ho dato troppo, su questo credo di avere un po’ sbagliato. Gli ho offerto una via già spianata: lui è venuto qui alla pari, non come noi, non ha sofferto come noi, ha vissuto bene, normalmente, come tutti qui. Andava a scuola e aveva amici più italiani che romeni.

Mentre lavoravo in pelletteria, dopo il lavoro andavo a lezione di italiano alla scuola Maltoni a Pontassieve, perché volevo impararlo meglio, mi sentivo un po’ analfabeta, sapevo leggere ma non sapevo scrivere. Sicché ho fatto un corso per principianti per un anno, poi lì ho incontrato Mila, una brava insegnante che mi ha incoraggiato a proseguire. Ho frequentato il secondo e il terzo livello e ho fatto gli esami al liceo Leonardo da Vinci a Scandicci, ottenendo l’attestato C2 con cui potevo fare traduzioni. Visti i miei problemi di schiena pensavo di fare un lavoro più leggero. Traduzioni però ne ho trovate poche da fare. Sono anche abilitata dall’Albo di Firenze per le traduzioni giurate, i documenti ufficiali. Ho preso anche l’HCCP e ho lavorato come cuoca prima alla Villa San Biagio a Dicomano e poi al Beato Angelico, un’altra casa di riposo. Sono entrata come aiuto cuoco e son poi salita di livello, anche se non di soldi!

Ora che ho aperto un negozio di alimentari, tutte le mie esperienze precedenti mi sono servite, anche quelle in Romania, perché riesco a leggere un contratto, una fattura, capisco la parte primaria della mia contabilità, l’altra non sono abilitata a farla, ma comunque tutto mi aiuta e ho più soddisfazione, più che altro perché posso usare anche il cervello e non solo la schiena, che ora mi gestisco io. Ho anche soddisfazioni personali ora, vivo qui a Castagno ormai da tanti anni e ci sto bene, interagisco, mi sento benaccetta, non sento più discriminazioni.

Della Romania ho sempre nostalgia, mi mancano un po’ le cose di casa, gli amici, che vedo raramente. L’anno scorso ci son tornata, quest’anno non riesco. Mi manca anche di andare al cimitero a mettere una candela ai miei genitori. Ma mi

manca tutto un po’ meno: prima non mi sentivo a casa qua, fino a cinque o sei anni fa, ma ora credo di sentirmi a casa. Prima avevo anch’io un po’ di difficoltà nell’approccio con le persone, poi ho cominciato a capire che probabilmente anche da parte mia c’erano delle chiusure. Ora, quando ripenso ai problemi e alle persone che mi han dato lavoro all’inizio qui in Italia, non porto rancore, penso che siano solo un mondo che non mi appartiene. Poi ora che sono anche cittadina italiana, sento che tutto è cambiato, ora è diverso quando un carabiniere mi ferma e controlla la mia patente. Mi sento più sicura e tranquilla. Essere cittadino vuol dire che ti sei inserito, che hai perseguito delle tappe, che sei una persona a posto. Prima mi guardavano in maniera diversa, o forse sono io che lo pensavo, c’è da dire anche questo.

Anch’io avevo il pregiudizio, mi sentivo a disagio. Ormai sono sedici anni che sono in Italia, anni pieni, ricchi, e sono contenta, sono soddisfatta di quello che ho ottenuto. C’è stata la mia fatica, la mia dedizione, ma ho ottenuto. Non ho rimpianti. Sono cresciuta e sono cambiata, siamo davvero diventati italiani, non frequentiamo comunità di romeni, solo qualche amico. Le tradizioni romene le ho perse, le rivivo quando vado in Romania o quando qualcuno viene a trovarmi. Qualcosa in casa mantengo sempre, ma sempre meno. Ho partecipato a qualche ritrovo, qualche evento tra romeni, ma poi basta. Ho partecipato a qualche cena etnica, anche qui a casa, più che altro per far conoscere la nostra cucina e per farci conoscere. Ora ho anche poco tempo per fare altre cose.

Forse avrei preferito vivere in città perché è più comodo, venire a stare qui tra i boschi e le montagne non è stata una scelta, ma non mi dispiace e sicuramente mi sono integrata meglio qua che non se stavo a Firenze. Ho questa sensazione. Nelle piccole comunità ti inserisci meglio. Ed è guardando alle piccole cose quotidiane che si capiscono le differenze tra romeni e italiani, anche se la falsità c’è anche qui, la noto tante volte. Qui c’è più superficialità nel fare, nel promettere, più leggerezza. Noi siamo stati tanto stressati e oppressi e ne risentiamo, siamo più spaventati, più abituati a rispettare le regole, gli orari. Se ho fissato un appuntamento non faccio finta di niente e non ci vado. Affronto la cosa. Qui se vengono dopo una settimana non gli sembra nemmeno strano! Per sistemarmi un frigo in negozio mi avevano detto settimana scorsa “sarò lì giovedì o venerdì”, ma niente e nemmeno un messaggio. Gli ho mandato io un messaggio dicendo che avevo una certa urgenza: mi ha chiamato oggi, dopo una settimana, dicendo che spera di riuscire a venire venerdì! Anch’io spero, ma non è scontato, è così!

I romeni sono più scorbutici e gli italiani sono più allegri, ma è anche un modo di fare e magari non sono allegri davvero. L’italiano è più vivace. In questo senso mi trovo bene. Quello che mi irrita di più degli italiani è la leggerezza di cui parlavo, il far finta di non aver capito, il fare i furbetti. Ma ho capito che non devo generalizzare. E coi romeni lo stesso. Anche gli italiani non dovrebbero generalizzare riguardo agli stranieri. Io mi intendo meglio con gli anziani che hanno passato periodi difficili dell’Italia, come il periodo della guerra, quando si stava un po’ come in Romania. Ci sono miei coetanei che fanno tante passeggiate in giro e si lamentano che non hanno nulla, che non trovano lavoro, dovrebbero lamentarsi meno e darsi più da fare. Io son mezza stronca e un lavoro me lo sono creato. Ma anche il mio figliolo, che è cresciuto avendo tutto, alla fine si lamenta troppo! Trovare tutto pronto non ti fa crescere. Adesso anche in Romania qualcosa è cambiato, ma qui si pretende di più che sia lo Stato a darti tutto. Se sgobbassero tutti un po’ forse l’Italia andrebbe meglio. Forse il benessere ha portato a questo. Vedo giovani che non han voglia di far niente, sono depressi, si sentono sconfitti, perché lo Stato non li aiuta, ma sta a loro cambiare qualcosa. Noi allora in Romania non potevamo cambiare niente, dovevamo accettare tutto così, ma qui ora le cose si possono cambiare, c’è libertà di voto, c’è libertà di scelta. Io ho scelto anche di far del volontariato, che mi ha aiutato a socializzare di più, mi ha dato tanto. Ho deciso di vivere qui, quindi non voglio esser vista come la straniera venuta per far soldi e basta. E non mi ritrovo andando al bar, ma facendo qualcosa con altri. A casa nostra in Romania chi andava al bar ci andava a bere, io non ci entravo mai. Era frequentato più da uomini, si chiamava “buffet”. Per me era cosa vietata e non era un luogo di aggregazione. Qui il bar è un’altra cosa e l’accetto, ma faccio fatica anche solo ad entrare a prendere un caffè.

Al volontariato ci sono arrivata attraverso le serate etniche organizzate dal Comune. Dopo i corsi di italiano ero andata anche al Centro Interculturale a Pontassieve e in un centro a Firenze dove offrivo le mie traduzioni, ma facevo fatica ad andare a Firenze. Sicché mi son limitata alla zona e ad un piccolo contributo all’Auser, anche per farmi conoscere, per rompere la diffidenza. Dico: non vado al bar, ma da qualche parte voglio andare a parlare con le persone! Se non esci e non ti vedono, ti isoli. In più, da quando il mio figliolo è cresciuto, ho cercato i miei spazi, ho cercato di fare anche delle cose per me. Prima ero sempre concentrata sulla casa, ora a casa non ci sono più!

Ad Andrei ho trasmesso il coraggio di andare. Magari lo vedo poco, studia Scienze Politiche, Relazioni Internazionali, ora Mediazioni e Conflitti di Guerra, ma ha capito che vuole esplorare il mondo. Prima dei trent’anni io non credevo di essere un’avventuriera, di essere coraggiosa, e invece! Lo sono diventata per disperazione e necessità. Quindi è giusto avere il coraggio di partire, ma meglio valutare bene, provare, tornare se non va bene. Andrei è in Lituania a studiare ora e dopo il primo mese mi dice che l’inglese lo parlano solo a scuola e che in giro non sa comprare nemmeno la verdura, che non si trova e mi dice “che ne sai te com’è in un paese straniero!”. Guarda, gli ho fatto una partaccia: “ma dillo a un’altro! Tu hai un bancomat, un postepay in tasca, una stanza, vai a scuola e parli inglese, hai tutto a posto, se ti mancano i soldi mi chiami e mi dici di metterti qualcosa su postepay, non mi parlare di com’è in un paese straniero quando io non avevo documenti né soldi”. “Ah, te con le tue storie di una volta!” mi dice. Lui non le ha vissute e quando uno non le vive non le vede alla stessa maniera. Per lui là é una fatica pensare che quello non può dargli la verdura che vuole! Quando lo vedo superficiale su cose come queste mi viene da rinfacciarglielo, non tanto per dirgli quanta fatica ho fatto, ma per farlo ragionare. So che tendo a responsabilizzarlo troppo a volte, ma non lo faccio apposta, sono un po’ indottrinata. Per me, quando lui mi diceva ho mal di pancia e non vado a scuola, era inaccettabile, lo mandavo lo stesso. Se era una cosa seria andava bene, ma se mi sembravano scuse… Anche al lavoro, se c’era la neve alta ero l’unica ad andare a lavorare. C’era la neve, ma è passato lo spazzaneve, se non fosse passato d’accordo, ma se una cosa la posso fare la faccio. Non posso dire una bugia. E intanto vedo le donnine anziane la mattina correre a far questo, a prendere quell’altro, potrebbero starsene più tranquille, fare la vita delle pensionate, ma sono abituate a quei ritmi, ritmi di altri tempi. Io non ho cercato le vie facili, credo di aver cercato le più faticose. Se volevo vivere facilmente avrei potuto accettare in Comune un pacchetto di sigarette oggi, un pacchetto di caffè domani, ma così non vai lontano. Tanti fanno così, accettano la corruzione, ma può capitare che un giorno finisca tutto e allora che fai? Così ho preferito lavorare e accettare quello spirito competitivo che un po’ s’è perso, ma che in verità ci vuole. Quello spirito caparbio che mi arriva dal passato che ho vissuto e che mi è rimasto indelebile nell’anima. Nonostante le cancellature.

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  1. voglio presentarti un grande mago, un grande incantatore che ha aiutato molti con i loro vari problemi nella vita. è un grande incantatore che restituisce l'amore perduto, riporta la relazione che pensi sia rotta, con l'aiuto dei suoi incantesimi puoi ottenere tutto ciò che pensi che desideri come ottenere una promozione sul posto di lavoro, auguri di buona fortuna e molti altri puoi farlo se lo chiedi aiuto. Mi chiamo Maureen Spencer, sono venuto in contatto con Chubygreat quando mio marito ha lasciato me e i bambini, ero devastato dal fatto che non sapevo mai cosa fare, ho visto la sua email su google chubygreat@gmail.com come ha aiutato le persone a ripristinare il loro lavoro e tante cose che ha fatto, quindi ho deciso di provarlo, mi ha fatto alcune domande e mi ha detto le cose che dovevo ottenere prima di iniziare il lavoro, dopo che ho reso tutto disponibile mi ha assicurato che in due giorni in cui mio marito tornerà e si scuserà con me, ho pensato che fosse uno scherzo, ma ho scelto di credergli. Il secondo giorno che ha promesso, mio ​​marito ha chiamato quella mattina e ha iniziato a chiedermi al telefono che avrei dovuto perdonargli che è dispiaciuto di essere andato via, sono rimasto stupito e appena ha finito la chiamata, sono corso rapidamente in bagno sentendomi felice e dopo aver fatto il bagno, io e i miei figli abbiamo deciso di uscire, aprendo la porta ho visto mio marito Thomas davanti alla porta inginocchiato e chiedendomi di perdonarlo, lo prendo velocemente e lo abbraccio così è tornato con l'aiuto di chubygreat. puoi contattarlo ora con questo dettaglio. e-mail chubygreat@gmail.com o whatsapp +2348165965904 e il problema verrà risolto entro due giorni.

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