DI TERRA IN TERRA, ALLA RICERCA DELLA CUCINA FELICE

Storia di Simone
A cura di Gabriela Branca

Sono nato a Santa Margherita Ligure il 6 marzo 1991 e ho trascorso la mia infanzia tra il mar ligure e i laghi in provincia di Varese. Quando ci siamo trasferiti in Toscana, a San Godenzo, ho iniziato la scuola media. Fin da piccolo volevo fare il cuoco, son sempre stato un amante del cibo, così dopo le medie non ho fatto fatica a scegliere: mi sono iscritto al Chino Chini, l'istituto professionale alberghiero a Borgo San Lorenzo. Ho fatto i miei cinque anni lì e sono stato contento di farli. Alla fine, se parti col presupposto che la scuola è lì per darti una piccola base, per iniziarti al mondo del lavoro, la prendi così com'è e va bene, senza troppe aspettative. Gli istituti professionali non sono scuole che danno una formazione al cento per cento e se ti aspetti di uscire e trovare lavoro subito, il lavoro dei tuoi sogni, perché ti sei diplomato, magari anche con un bel voto, rimani sicuramente deluso. L'istituto alberghiero ti dà una base e poi sta a te. Finito l'alberghiero ho frequentato l'università per un anno, ma non era la mia storia e, dopo aver cercato lavoro in Italia e non avendolo trovato, ho optato per andare all'estero. Ho fatto una piccola ricerca per capire quale fosse la meta europea che offrisse più opportunità lavorative nel settore della ristorazione e quindi la scelta è caduta su Londra.

Quando son partito, nell'ottobre 2011, le mie aspettative erano molto alte e devo dire che non son rimasto deluso. Certo, appena arrivi lì c'è lo shock iniziale della grande città! Dopo aver vissuto dieci anni in un paesino come San Godenzo, quando arrivi a Victoria Station, scendi dal treno e trovi una stazione immensa, piena di gente che non parla la tua lingua, esci dalla stazione e hai una metropoli davanti, pensi "e adesso che faccio? dove vado?". Magari uno non è mai andato all'estero, ancora non sa come muoversi, come comunicare con le persone e chiaramente si trova un attimo spiazzato. Lì entra in gioco il tuo carattere. Se sai adattarti, non trovi nessuna difficoltà. Personalmente non ne ho trovate, anche se non avevo un lavoro che mi aspettava.

Son partito prenotando un ostello per qualche giorno e dopo una settimana ho potuto scegliere tra due lavori diversi, in cucina ovviamente; e in due settimane avevo casa e lavoro. Tralasciando gli stages durante la scuola, quello è stato il mio primo lavoro e il mio primo lavoro all'estero! Trovarlo è stato relativamente semplice, a Londra le opportunità son talmente tante che è difficile rimanere disoccupati: anche camminando per le strade passi davanti ai ristoranti e ci son magari fuori i cuochi e "oh, cercate personale?", qualcuno mi ha detto di no e qualcuno mi ha detto di si. Ho trovato molte persone disponibili.

Va da sé che essendo una grande metropoli, c'è tanta gente che ci vive e ci lavora, ci son tante attività, ristoranti e quindi c'è molta richiesta ed altrettanta offerta. Sta a te far emergere la tua persona. In ogni lavoro che ho trovato lì ho dovuto combattere fin dall'inizio per ritagliarmi un posto in cucina e lavorare con persone che non conoscevo. E' stato abbastanza difficile, nel senso che ero lì, avevo una casa e un lavoro, ma sostanzialmente ero lì con pochissimi soldi, quindi dovevo impegnarmi a farmi andar bene assolutamente il lavoro che avevo trovato. Perciò lo sforzo iniziale è stato abbastanza tosto, inoltre lavorare in una cucina non è mai semplice, soprattutto quando ti inserisci in una cucina straniera (anche se magari ci trovi più italiani che inglesi), ma stai lavorando a Londra, stai lavorando in un ristorante dove magari arrivano venti curricula al giorno e perciò devi entrare nell'ottica che se a te non va bene di sicuro non troverai nessuno che lotterà per farti restare lì! Nel senso: "se non ti va, vai, ne trovo quante ne voglio di persone che ti possono sostituire". Sta a te ritagliarti un posto, sei tu che ti devi impegnare, cosciente del fatto che se te ne vai non è che gli fai un torto, loro ci mettono cinque minuti a trovare un'altra persona. C'è tantissima gente che passa, veramente tanta. Tanti italiani e tanti stranieri.

All'inizio ho lavorato per un grande ristorante che comprendeva una parte italiana e una giapponese, poi in altri due ristoranti solo italiani. Il primo era un ristorante di nuova apertura: se fai fatica ad inserirti in un ristorante già avviato, inserirti in un ristorante che sta aprendo è dieci volte più faticoso. Ma erano tutti giovani, tutti italiani nella parte italiana e ovviamente tutti giapponesi nella parte giapponese. Ho lavorato in tutte e due le parti perché mentre lavoravo nella cucina italiana lo chef era stato licenziato per diversi motivi e quindi molti che erano lì per lavorare con lui se ne erano andati e io invece ho sfruttato l'occasione e, spinto un po' dalla curiosità per la cucina giapponese, mi ci sono inserito.

A Londra gli stipendi sono buoni, ti permettono di fare una vita più che decente, anche se in cucina le ore spesso superano quelle del contratto. Nel primo ristorante mi pagavano le ore straordinarie, in quelli successivi no. Iniziavamo alle nove di mattina, staccavamo un paio d'ore nel pomeriggio e andavamo avanti fino alle undici e mezzo, mezzanotte, fino a fine servizio, insomma.

Nel momento in cui arrivi a Londra ci vuole un attimo di tempo per capire come funzionano le cose, ma poi vai tranquillo. Sono andato in un centro medico, gli ho dato la mia residenza e loro mi hanno assegnato un dottore e dato istruzioni per ricevere il national insurance number, un cartellino da richiedere su internet. Insomma, ti devi informare, però non è niente di impossibile.

Londra è vivibilissima, giovane, piena di cose interessanti da fare e vedere, pub spettacolari ovunque. Passeggiando per le strade vedi sempre cose diverse, interessanti. E' bello viverci! Ho apprezzato molto i parchi e come sono vissuti: sono molto vasti e curati e la gente ci va a fare di tutto, ci trovi laghi, fiumiciattoli, animali, magari ci metti anche un paio d'ore per attraversarli. E poi ci son grandi piazze suggestive, come quella di Oxford Circus o di Piccadilly, che ha schermi enormi attaccati ai palazzi ed è sempre piena di gente. Lì senti proprio lo spirito della metropoli, gente che va e che viene, frenetica, attraverso le entrate e uscite della metropolitana, accanto a quelli che fanno shopping o agli artisti di strada, che sono tantissimi.

Londra è una città ospitale, molto aperta, multiculturale al massimo, veramente. Non ho avuto nessun tipo di problema con gli inglesi. Ho anche trovato degli amici: lavorando in cucina alla fine gli amici sono quelli con cui lavori, perché oggettivamente non passi molto tempo fuori dalla cucina. I gruppi di persone con cui ho lavorato erano multietnici: giapponesi, italiani, tedeschi, francesi e via. Ci si integra bene a Londra, un buon posto dove andare a lavorare.

Son stato lì poco più di due anni, me ne sono andato perché mi è capitata l'opportunità di cambiare paese. Un'amica di un'amica lavorava in un hotel a Dubai e chiacchierando saltò fuori che cercavano dei cuochi e quindi le passai il mio curriculum e dopo un paio di settimane mi chiamarono, mi fecero un'intervista, lasciai il mio lavoro a Londra e andai dritto a Dubai. A Londra nei ristoranti c'è tanta gente che va e che viene, c'è un ricambio fisso di persone, però in ogni ristorante ci sono sempre quelle quattro o cinque persone fisse che son lì da anni e ricoprono ovviamente cariche importanti nel ristorante. Quindi la gente che va e che viene, come ho fatto io, non può che ricoprire le cariche sotto, diciamo e, ovviamente, avendole scalate tutte fino ad un certo limite, lì rimane e sopra ha questi personaggi che non se ne andranno mai. Io me la son vissuta bene, ho fatto il mio, cercando di essere sereno e di viver bene la mia vita. Sono partito dal basso, sono salito un po', consapevole che poi più in su di lì non sarei andato e, appunto, ho colto l'occasione per cambiare. Son partito dall'essere un commis, son passato a demi-chef e poi chef de partie. Ho approfondito le mie conoscenze della cucina, ho lavorato in buoni ristoranti, due dei quali hanno una stella Michelin. Questo mi ha permesso di avere delle basi solide riguardo alla cucina italiana, che poi mi son servite tantissimo a Dubai.

Arrivato a Dubai ho assunto un ruolo che era di mezzo grado più basso di quello che avevo raggiunto a Londra. Ho accettato questo compromesso perché ero consapevole che lì sarei cresciuto di più e così è stato.

A Dubai lo shock iniziale non l'ho avuto perché ero già preparato ad affrontare una città nuova, sapevo quali erano i punti precisi che dovevo toccare, che più o meno son sempre quelli: cercare alloggio, guardare subito quali sono i mezzi di trasporto, come funzionano, dove vanno, qual'è la via più breve, il percorso più semplice, controllare subito qual'è l'ospedale più vicino. A Dubai è stato più semplice, perché il contratto comprendeva la casa, il trasporto, ovviamente il lavoro e un medico, tutti i mezzi necessari per sentirmi tranquillo. Tutte le grandi società di Dubai, tutte le grosse catene alberghiere ti danno queste sicurezze.

Anche Dubai è multiculturale, forse anche più di Londra, perché a Dubai sei nel mezzo, da una parte molto vicino all'Asia, all'India e dall'altra all'Europa, all'Africa. Ci vivono gli arabi ma ci sono un sacco di altre persone, italiani, indiani, tanti inglesi, giapponesi, cinesi, filippini. E' un punto di incontro, ma mentre Londra è molto viva anche culturalmente, è una città antica, Dubai è una città costruita nel nulla, nel deserto, che ha cominciato a formarsi negli anni Novanta. Prima di allora c'era solo deserto o poco più. E' una città nuova e si vede, non ha storia. C'è una città vecchia, ma è vecchia per modo di dire, solo non ha subito il boom economico del resto della città, una città molto ricca. Sicuramente dal punto di vista sociale è stata molto più limitante di Londra, perché sono più restrittive le regole locali. Per esempio all'entrata di ogni condominio c'è una zona con la security che sa chi vive lì dentro e non permette l'entrata agli estranei, a meno che non lascino un documento o abbiano un pass per accedere. Comunque chi non ci vive non può restare dopo la mezzanotte, l'una; deve andarsene via, non si può far festa. Se vuoi fare una cena con gli amici la fai, però alle undici tutti a casa. Anche sugli alcolici ci son leggi che quando vivi lì ti accorgi essere utili ma anche contraddittorie. Ad esempio gli arabi non possono bere e ti vietano di tenere anche solo una birra in casa, a meno che tu non sia un grado alto in una grossa compagnia, però magari esci la sera, vai in un locale e trovi arabi e arabe non sposate, sbronzi al bancone del bar, magari non vestiti da arabi, ma capisci che sono arabi.

Io ho avuto a che fare con gli arabi con cui lavoravo, non in maniera confidenziale. Il capo dell'Human Resource era arabo, qualche altro manager era arabo, c'era uno chef arabo. Non tantissimi. Nella struttura dove lavoravo c'erano diversi ristoranti e in uno di questi, di cucina locale, ci lavoravano degli arabi. Gli arabi lì sono abituati a vivere con tanti soldi. Arabi poveri non dico che non esistono, però gli arabi che trovi normalmente in giro per Dubai son medio ricchi, molto benestanti. Londra è più nella normalità in questo senso. A Londra se passava una Ferrari per strada tutti gli facevano la foto, a Dubai è la normalità. Fuori da un centro commerciale a Dubai ci sono parcheggiate le auto più lussuose che si possano immaginare, Bugatti, Lamborghini, Ferrari, e non si vergognano a farti vedere che hanno i soldi, te lo fan vedere eccome!

Il lavoro a Dubai penso finora sia stato uno dei migliori che ho fatto. Ho avuto la fortuna di lavorare con delle gran belle persone sia italiane che non e, rispetto a Londra, son state proprio le persone a far la differenza: a Londra c'era molto via vai, mentre a Dubai non è che ci entri come turista e poi trovi lavoro e resti lì, perché a Dubai la gente ha accettato di fare quel lavoro lì e sa che resterà lì un tot di anni, lo sa prima di partire e quindi la mentalità è diversa. Non è la mentalità di uno che va e prova, ma quella di chi va perché vuole andare proprio lì, vuole fare del suo lavoro un mezzo per arrivare in certi luoghi che gli interessano per una ragione o per l'altra. E si nota molto questa mentalità nelle persone che hai intorno, soprattutto nella cucina, nei ristoranti, negli alberghi. E' una mentalità molto più aperta, sai che gli altri son lì per il tuo stesso motivo. A Londra mi capitava di parlare con persone che erano lì perché gli servivano dei soldi, magari non eran nemmeno cuochi e non gli interessava fare carriera e non pensavano nemmeno che quello fosse il posto giusto per fare una determinata cosa. Mentre a Dubai si. A Dubai sul lavoro si era creato proprio un gruppo di belle persone che si sostenevano a vicenda e la mia è stata sostanzialmente un'esperienza molto inclusiva. Sulla cucina ho imparato moltissimo perché ho avuto la fortuna di avere degli chef che ne sapevano molto e che mi hanno permesso poi, dandomi sempre più responsabilità, di ampliare le mie conoscenze e integrarle con quello che volevo fare io, dando spazio alla mia persona, alla mia immaginazione, alla mia creatività. Quindi ho trovato estremamente gratificante soprattutto l'ultimo periodo in cui ero lì, proprio perché dandomi sempre più responsabilità nella cucina riuscivo a mandarla avanti senza problemi e a mettere del mio in ogni cosa che facevo, insegnando anche agli altri magari delle piccole cose.

Lavoravo nel ristorante Fine dining italiano in un grande hotel con molti ristoranti. L'hotel ha molti manager di suo e ogni ristorante ha un manager e un assistant manager, che fan capo all'hotel manager che fa capo a sua volta a un general manager. C'è una notevole gerarchia. A Londra non avevo conosciuto questo tipo di organizzazione perché avevo lavorato solo in ristoranti. L'organizzazione è sostanzialmente diversa, proprio perché nell'hotel devi avere a che fare, volente o nolente, con i manager, soprattutto se, come nel mio caso, arrivi ad avere un certo tipo di responsabilità. Queste responsabilità comportano che tutte le scelte che prendi in quel ristorante lì, che fa parte di quell'hotel lì, che ha dei manager, le devi fare con i manager, perché tutto deve essere coordinato. Se io cambio il menù una sera e il manager non lo sa non funziona niente. Facevamo dei briefing tutti i giorni, tra tutti gli chef verso le undici, i manager facevano un briefing per conto loro, poi il manager del nostro ristorante faceva un briefing con tutti i suoi camerieri e maitre. Poi ovviamente c'era un punto di incontro tra la cucina e la sala, riunioni che decidevamo noi di fare quando c'era qualcosa da dire, che so, si cambia il menù, questo non va bene, parliamone insieme, questo servizio va migliorato. Insomma quando c'erano dei problemi o delle necessità ci mettevamo tranquillamente intorno a un tavolo e discutevamo. Ovviamente non tutta la cucina e non tutta la sala, in una decina: il manager, l'assistant manager, magari il maitre, il sommelier e due o tre della cucina. Era un lavoro fondato sul dialogo costruttivo e c'era talmente da fare che a nessuno piaceva perdere tempo in chiacchiere, tutte le cose che si facevano erano ben mirate. L'hotel rispetto ai ristoranti è molto più organizzato in tutti i sensi. Il ristorante affronta le stesse problematiche in scala ridotta. Il ristorante di un hotel deve affrontare invece l'hotel nel suo insieme. Anche nei ristoranti fanno riunioni, ma sono riunioni meno impegnative. Nell'hotel quando fai riunioni possono esserci il general manager, l'hotel manager, che sono sicuramente persone con cui non hai confidenza e stanno così in alto, persone importanti. Dal punto di vista umano e gestionale è stato infatti molto interessante e formativo. A un ragazzo che deve iniziare a lavorare consiglierei di partire da un ristorante perché è meno complicato, ma poi di provare ad entrare nell'organizzazione di un hotel, di grosse catene alberghiere, per avere una visione più allargata e aprirsi nuove possibilità, avendo il tempo di capire quello che vuole veramente fare. Se ti sei diplomato in un settore della ristorazione o dell'ospitalità, lavorando in un ristorante trovi molti meno spunti, lavorando in un hotel invece il ventaglio si apre: c'è l'human resource, c'è chi si occupa del food cost, quelli che lavorano nel finance, quelli che organizzano eventi magari relativi al tuo ristorante e allora gli passi i menù, organizzate eventi insieme. Molti di questi son laureati, ma posso dire che in un grande hotel, se dimostri che hai voglia di fare altro oltre a quello che stai facendo, se è una compagnia seria e ci sono le possibilità, ti danno l'opportunità di inserirti in altri settori. Ho lavorato con persone che a un certo punto han detto "va beh, mi piace il settore eventi di questo hotel, chiedo se posso fare un'internship in questo settore". Hanno chiesto se nel loro giorno libero o due ore al mattino potevano andare a fare questa internship ed alla fine è capitato che quella sezione avesse bisogno di una persona in più ed avendo questa già fatto il training e un'internship di qualche mese, visto che era brava, gli han chiesto di lavorare lì, di spostarsi lì. Ho visto persone cambiare la divisa da chef con giacca e cravatta. Così ora fanno un altro lavoro e sono molto soddisfatti.

Quella a Dubai è stata senz'altro la mia esperienza più positiva. Tutti i benefit previsti dal contratto erano subordinati al grado assunto nella compagnia. Per esempio il grado più basso corrispondeva ad un appartamento condiviso con altre tre persone. Ho iniziato lì con un grado più alto e all'inizio avevo un appartamento condiviso con un'altra persona. Ma non mi piaceva molto condividere con altre persone, soprattutto se colleghi o sconosciuti, perché se tornavo a casa dopo il lavoro e volevo farmi la doccia e girare in mutande e rilassarmi... All'inizio condividevo con uno del Bangladesh, completamente un'altra cultura, poi con un italiano. Alla fine, salendo di grado, ho ottenuto un appartamento tutto per me.

Il mio ultimo ruolo lì formalmente è stato quello di junior sous chef, però a livello pratico ero più di un sous chef, perché la compagnia in quel momento s'era trovata senza un sous chef, io avevo il grado più vicino e quindi sono arrivato a ricoprire la sua posizione e anche di più.

Si son create delle amicizie lì con persone che sento ancora. Il lavoro in cucina aggrega molto. Capita anche che qualcuno ti stia sulle palle e ci siano scazzi un giorno si e l'altro pure, ma il lavoro in cucina unisce parecchio, perché si è lì tutti intorno, è un lavoro di gruppo, di comunicazione, di rapportarsi con l'altro. Se quelli della partita dei primi piatti non comunicano con la partita dei secondi c'è un problema, non funziona niente. In cucina si parla sempre, di qualsiasi cosa passi per la testa, dalle cose serie alle stronzate estreme! I momenti frenetici sono paradossalmente i più silenziosi, almeno dovrebbero, se sai lavorare nel momento frenetico non ti metti a parlare: capisci cosa devi fare, lo prendi e lo fai fino in fondo. Nei momenti di stanca invece ti rilassi. Se in cucina non sei in armonia con gli altri, sia per quelli che stanno sopra di te che per quelli che stanno sotto è un grosso problema. Questo avviene se le persone non sono concentrate quando sono sotto pressione, magari il loro lavoro lo fanno bene, sono delle bravissime persone, però sotto pressione sballano completamente, cominciano a fare cose strane, cose che non hanno nessun senso, cose inutili. E li vedi in cucina: cominciano a girare a vuoto, non sanno cosa guardare, cosa fare. E quelli sono un problema, che dipende magari dal fatto che in quella situazione lì gli è stata data troppa responsabilità o non erano pronti per l'incarico che gli è stato dato, non erano sufficientemente formati, o magari erano solo stanchi.

I peggiori sono quelli che pretendono di saper fare appena usciti dalla scuola. Mi è capitato di lavorare con persone appena uscite dagli istituti alberghieri che se la sentivano molto, arrivavano lì e "io so fare questo, io so fare quest'altro", si son presi due padellate in testa e son stati mandati a casa subito. Non erano in grado perché non l'avevano mai fatto. Non puoi pretendere di uscire dall'alberghiero e sapere come funziona una cucina.

Mi è capitato anche di lavorare con persone che avevano fatto scuole a pagamento, magari anche da dieci mila euro all'anno, che erano degli incapaci. Anche a me, se la scuola avesse offerto di più a livello pratico, sarebbe stato meglio. Non sarebbe stato comunque sufficiente per entrare in una cucina e sentirmi propriamente a mio agio. Del livello teorico non posso lamentarmi, a parte l'inglese, le lingue, che andrebbero approfondite meglio. Di quello che ho studiato alla fine qualcosa ho messo in pratica, qualcosa no, ma non ho sentito mancanze. Chiaro che poi in cucina la teoria finisce subito ed entra in gioco la pratica. Oggettivamente oggi all'alberghiero riguardo alla cucina si studiano cose che non trovi più da nessuna parte, le uniche possono essere i ruoli, i vari ranghi, ma i servizi, tanti termini tecnici, come ci si comporta in cucina ed altro, adesso non rispecchia quasi per niente quello che poi trovi entrando in una vera cucina. E' un mondo che è cambiato, forse i libri rispecchiano quello che poteva essere prima, ma prima prima! Oggi l'ambiente è migliorato, si è evoluto molto negli ultimi anni grazie a tutti quelli che ci lavorano, a chef che promuovono nuove tecniche, nuovi modi di comunicare, nuovi termini e nuovi accostamenti del cibo, nuovi prodotti.

Riguardo al boom della cucina sui mass media posso dire che quello che si vede in televisione non rispecchia affatto quello che in realtà è il lavoro. E' solo intrattenimento e finisce lì. I grandi chef famosi è possibile conoscerli, ma devi avere una gran botta di culo e sui loro libri non troverai mai delle risposte esaurienti dal punto di vista tecnico. Ai ragazzi che escono dall'alberghiero suggerisco di fare tanta esperienza e vai!

Da Dubai son venuto via perché non ce la facevo più a vivere in una città così finta, che ostenta ricchezza da tutte le parti, dopo un po' ti senti un po'... Mancava tutta la parte sociale, lo dico a tutti quelli che mi chiedono perché sono andato via da Dubai. D'altra parte se avessi trovato lo stesso posto di lavoro in Italia sicuramente sarei ancora lì.

Prima di tornare in Italia ho fatto un salto a Miami a lavorare qualche mese, un lavoro che mi avevano offerto a Dubai. Mi avevano messo a capo di una cucina di un ristorante italiano a Miami Beach, però non era proprio storia per me rimanere lì a fare pizza, panini, paella, non rientrava nelle mie aspettative. Si trattava di una cucina proprio da turista, a buttar via. Arrivavo da una cucina più raffinata e non me la son sentita di tornare indietro. Mi pagavano bene, ma significava scendere di qualità.

La cucina italiana è famosa in tutto il mondo, ma gli stranieri è difficile che sappiano distinguere la buona cucina. Magari un italiano che non ha mai aperto un ristorante in Italia, che non sa un cazzo di cucina, apre il suo ristorantino a Mumbai, fa della merda stratosferica, ma quelli del posto lo apprezzano solo perché è italiano, solo perché loro hanno una cultura diversa. Poi, ci son sempre i personaggi che chiedono cose tipiche loro, salse o ingredienti da mischiare al piatto italiano, cose che loro pensano di poter mettere nella tua cucina. Lì per lì ti fanno un po' incavolare, ma alla fine è normale. Chiaro che se venisse tutti i giorni uno a chiedere cose diverse, gli diresti di andare in un altro posto. Ma adesso le cose stanno un po' cambiando, piano piano.

Quindi son tornato in Italia. Avevo trovato un lavoro stagionale in un hotel vicino a Firenze, ma ho lasciato perdere perché mi son trovato a lavorare con persone dalla mentalità molto chiusa e soprattutto con uno chef che era veramente vecchia scuola, nel senso che aveva lavorato in Francia, era sicuramente stato sfruttato, frustrato e a sessant'anni adesso si ritrovava a scaricare la propria frustrazione su quelli che lavoravano per lui. C'era una sorta di nonnismo all'ennesima potenza, senza possibilità di sviluppo della creatività, zero, assolutamente zero. Una mentalità che non auguro a nessuno, proprio brutto lavorarci. E' stata la mia prima esperienza in Italia e non è stata per nulla positiva. Dall'Italia mi aspettavo un bel posto di lavoro, consapevole delle mie esperienze. Forse sono stato abituato male all'estero, avendo lavorato a Dubai con persone che eran lì per aiutarsi, che eran lì perché gli piaceva quel lavoro, consapevoli che non esisteva solo quel posto ma anche tutta una cultura culinaria vastissima da conoscere, persone quindi che andavano a vedere, cercavano di migliorarsi, si consultavano... Tutte queste cose non le ho trovate in Italia. Tanti di quelli che lavorano qui in Italia adesso sono convinti che lavorare in Italia sia avere la burrata dalla Puglia, i pomodori buoni, che questo basti e avanzi per mandare avanti una cucina per anni senza fare nient'altro, che basti essere italiano e avere i prodotti buoni, quando invece questo dovrebbe essere solo il punto di partenza, non l'arrivo. In generale c'è meno ricerca, anche se ci sono le eccezioni.

Mi son girate un po' le palle lì per lì, insomma, ma non mi sono scoraggiato. Sono venuto in Italia per restare in Italia. Di sicuro non son venuto in Italia per farmi mettere i piedi in testa da quelli frustrati o da quelli che pensano che la cucina italiana si limiti alle poche cose che ci sono qui e si sentono superiori agli altri. Quindi ho cercato un altro lavoro e l'ho trovato in un ristorante qui vicino a Firenze, dove son rimasto per diversi mesi. Ero solo in cucina ed è andata bene finché è andata, ma non trovavo campo fertile per sviluppare quello che volevo: una cucina di tipo Fine dining. Non son tornato in Italia con la pretesa di fare un Fine dining come all'estero, per esempio a Firenze son pochi quelli che fanno Fine dining perché i toscani non lo capiscono.

Punto di partenza della cucina Fine dining sono ingredienti di prima qualità, buoni, stagionali, possibilmente niente di congelato, frutta e verdura fresche, carne dei produttori locali, non industriale. Il Fine dining quindi è prendere questi ingredienti e trasformarli, attraverso tecniche dalle più avanzate alle più tradizionali ma rivisitate, in un piatto che ha lo scopo sì di sfamarti ma anche di sorprenderti dal punto di vista del gusto, degli accostamenti, dei colori, del modo in cui sono disposti gli ingredienti nel piatto. In altre parole, io che vado a mangiare Fine dining mi aspetto un impatto visivo del piatto non dico superiore a quello del gusto ma quasi. Il gusto e gli accostamenti sono fondamentali, ma altrettanto importante è l'estetica. Fine dining è anche sperimentare, mettere in pratica la creatività, ideare sempre qualcosa di nuovo, di interessante, qualcosa che non s'è mai visto, giocare con le forme, con le consistenze, stupire. Arrivare all'eccesso è invece quello che era la Nouvelle cuisine. Il Fine dining è la via di mezzo, insomma, l'ha ridimensionata e in sé porta tecniche molto più avanzate. Il Fine dining non c'entra niente con la Nouvelle cuisine. E anche quei piatti su cui ti buttano qualche gocciolina sul bordo o il fiorellino significano "vorrei ma non posso". Oggi tutti guardano “Masterchef” in televisione e vedono quelli che fanno gli scarabocchi sul piatto o leggono un libro di Cracco e cercano di imitarlo o son convinti che mettere del prezzemolo sul piatto o delle goccioline di aceto balsamico intorno sia bello, senza nessun ordine. Ma queste sono solo decorazioni. Il Fine dining non è decorazione: è tutto il piatto che ha il suo impatto visivo. Se guardiamo un piatto da pizzeria con sul bordo del prezzemolo possiamo solo dire è bello o fa schifo, è una decorazione. Mentre nel Fine dining si mette sì una decorazione, ma in funzione del gusto e della consistenza del piatto: se metto per esempio una fogliolina di sedano, che è bella da vedere, gialla o verde, ha un colore particolare, gioca con tonalità diverse, la metto perché voglio sì quel colore ma anche il sapore del sedano che mi taglia, magari che so, una punta grassa; ha il suo scopo, c'è uno studio. Quello che mi fa più innervosire quando vado in giro a mangiare è il fatto di trovare decorazioni che non hanno nessun senso e sono anche discutibilmente belle. Sono un po' tristi. Il prezzemolo intorno al piatto vai tranquillo che resterà intorno al piatto quando hai finito di mangiare, non te ne fai niente. Adesso vanno anche di moda i fiorellini: uno compra i fiorellini e li butta sul piatto, quando ci sono diversi tipi di fiori che hanno una punta amara, una punta dolce, li devi saper accostare.

E' giusto andar fieri per i piatti della nostra cucina italiana o toscana o ligure o piemontese. Ci son tanti piatti che val la pena mangiare, che sono ottimi, fanno parte della tradizione, ma oggi come oggi scegliere come punto di forza del ristorante la cucina classica o tipica al cento per cento è limitante, non è produttivo, perché ora, con tutti i media e spettacoli televisivi che girano, la gente non sa cucinare però forse ha maturato di più un senso del bello, guarda i piatti in modo diverso. Il che è un bene! Se dovessi aprire un ristorante quindi, rivisiterei un po' di piatti, senza lasciare deluso chi magari si aspetta di mangiare qualcosa di più normale. E' sbagliato anche trasformare tutto, cambiare tutte le ricette. Le lasagne: è inutile che mi fai tante storie, puoi fare il Fine dining quanto ti pare però la lasagna è la lasagna, se voglio la lasagna mi devi servire la lasagna. Quella rimane la cucina tipica che è giusto tenere, secondo me, come scelta nel proprio ristorante, però niente ti vieta di prendere altri piatti invece e rivisitarli, aggiungendo alla bravura la creatività.

Adesso lavoro in una scuola di cucina di Firenze, ho cambiato un po' ambiente. Ho deciso così perché, col senno di poi, guardando a quello che potrà essere la mia vita tra vent'anni, continuare a lavorare in cucina mi priverebbe dell'ottanta per cento di tutto il resto, nel senso dell'avere una famiglia o godersi un attimo la vita, avere qualche domenica libera. Lavorare in cucina è molto impegnativo ovunque; di sicuro lavorerai durante tutte le feste di questo mondo, lavorerai quando tutti gli altri stanno a casa. Sarebbe bello che i ristoranti non obbligassero a tante ore di lavoro, ma se stando aperti guadagnano di più stai tranquillo che staranno aperti di più. Invece lavorare in una scuola di cucina ti permette di essere a casa a Natale, a Capodanno: è un po' più umano, diciamo. Son contento del compromesso che ho trovato, perché mi permette di restare nel mio campo, ma in modo più vivibile. A scuola son partito come assistente tecnico in cucina per studenti stranieri e le mie aspettative sono alte. E' giusto che siano alte, a tornare indietro sei sempre in tempo. Per ora il mio sogno non è quello di aprire un ristorante, sarebbe troppo impegnativo, magari se mai un giorno avrò tanti soldi...

Adesso vivo a Rufina, nella Val di Sieve e mi piace, sono più vicino a Firenze. E' una questione di comodità, però senza farsi mancare il bello, perché qui intorno ci son le colline coltivate e i boschi e io non riuscirei mai a vivere sempre in città.

A Dubai questo mi è mancato, come anche i famigliari e gli amici e il poter chiamare qualcuno e organizzare una cena, fare qualsiasi cosa, andare al cinema: una vita un po' da collegio! Ma in generale all'estero son sempre stato bene, non ho visto né vissuto discriminazioni e insieme agli altri di altri paesi, ci siamo anzi divertiti moltissimo. A Dubai ho lavorato con uno di Hong Kong, un filippino, un indiano, qualche italiano, un russo e alla fine eravamo tutti lì a divertirci insieme. Il mio compagno di lavoro di Hong Kong cucinava benissimo, un risotto fatto da me e un risotto fatto da lui avevano lo stesso sapore, erano buoni ugualmente. Da questo punto di vista non ci sono mai stati conflitti. Nessuno ha mai detto niente di brutto o si è sentito in difficoltà in questo ambiente multietnico. A Dubai gli arabi han preso in considerazione il fatto che ero italiano e basta. Per questo non ho paure rispetto all'immigrazione in Italia, ma mi rendo conto che qualcuno può averne, magari quelli più attaccati al territorio, quelli con una mentalità meno aperta che si sentono sotto attacco. Ma non penso che in Italia potrebbero mai convivere quartieri interi di etnie diverse come a Londra. Chi viene qui non credo abbia le stesse opportunità. Un lavapiatti africano a Londra guadagnava più di me. Direi che gli italiani sono un po' più chiusi, meno propensi a evolversi. L'idea che mi sono fatto girando all'estero è che agli italiani piace lamentarsi stando sempre nella stessa posizione, senza fare niente. Chiaramente ci sono le eccezioni, però quando ero a Londra e c'era un problema di malnutrizione, per esempio, qualcuno si è messo a raccogliere firme, han fatto un referendum, il progetto è stato approvato e adesso diventerà legge il fatto che sia vietata una certa quantità di zucchero nelle bibite, per esempio. Per dire che han trovato subito una soluzione, si sono mossi subito. Forse perché là è più possibile farlo, mentre qui non è così immediato, ed è una pecca, ma forse anche perché qui ci sono tanti italiani a cui non gliene frega niente. L'italiano si sente sempre superiore, superiore anche ai problemi, c'è quella coscienza che è sbagliato farlo ma lo faccio lo stesso, e questo è un non voler migliorare. Gli inglesi son più attivi. A Dubai, essendo una città più moderna, han gettato subito delle fondamenta pensando al futuro in modo che tutti quelli che ci vivono e ci vivranno possano stare bene. In questo caso non hanno avuto bisogno di migliorarsi perché son partiti bene da zero. L'Italia invece è statica.

A Londra quando dici che sei italiano alle persone gli si stampa sempre un sorriso sulla faccia, non sai se ti stanno pigliando per il culo, se per simpatia o perché fanno fatica a prenderti sul serio. Questo perché la politica italiana vista dall'estero fa ridere. Siamo un po' ridicoli, siamo sempre il solito popolo allegro che mangia bene.

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