ULIVI E OLIO: UNA STORIA ANTICA (con un contributo di Fatjion Burfhielas)

Storia di di M. Luisa Dufour Berte
A cura di Franca Cozzini

Sono nata a Firenze nel 1920, conduco l’azienda agricola “Fattoria di San Leolino”, che adesso si occupa esclusivamente della coltivazione degli ulivi e di un frantoio dove, oltre alla produzione del nostro olio, lavoriamo anche per conto terzi. 

Attualmente sono sola, ma la mia famiglia è costituita da tanti nipoti e bisnipoti, tutti fortemente attaccati a Londa, che non mi fanno mai mancare il calore del loro affetto.
In passato invece eravamo una famiglia abbastanza numerosa, 8 persone, tanto è vero che la casa dove abito è molto grande, forse un po’ troppo per me, ma oltre a vivere in mezzo a tanti ricordi, mi dà la possibilità di poter ospitare tutti i miei nipoti - più di venti persone – quando ci riuniamo in occasione delle varie ricorrenze. Ci abito praticamente da sempre - l’azienda è in famiglia dal 1645 – perché anche quando vivevamo a Firenze, ci trascorrevamo tutto il nostro tempo libero. Stabilmente ci vivo dal 1940. 

Il mio lavoro attuale, come ho già detto, consiste nella conduzione diretta dell’Azienda, impiegando manodopera salariata fissa e stagionale, mentre in passato veniva condotta a mezzadria. E’ iniziato per scelta perché ho sempre amato molto la vita all’aria aperta e questo, forse, mi ha permesso di arrivare ad un’età piuttosto avanzata in discrete condizioni di salute. 

I primi tempi non sono stati facili: ho iniziato a lavorare in azienda nel1953, quando dopo aver licenziato il fattore, mio padre decise di occuparsene personalmente; io lo aiutavo imparando da lui tutto quello che c’era da sapere e quando lui è mancato, sono subentrata io , ricevendo piena fiducia anche dalle mie sorelle. Ho dovuto affrontare momenti difficili di fronte a grossi problemi, come l’abbandono della campagna e la fine della mezzadria. 

Infatti numerose famiglie di mezzadri, gradatamente lasciarono i poderi per intraprendere attività non agricole; queste famiglie, trovandosi generalmente in buoni poderi, avevano avuto la possibilità di mettere da parte qualche risparmio, con il quale iniziare un piccolo commercio o altre attività terziarie; altre famiglie mezzadrili mandavano i giovani ad imparare un mestiere e quando “ i vecchi” non erano più in grado di lavorare nei campi, si trasferivano in paese o in città. 

I poderi rimasti liberi, in un primo tempo venivano occupati da altre famiglie provenienti da zone più disagiate, ma ad un certo punto l’esodo si verificò in maniera più veloce e su vastissime proporzioni tanto che, mentre nel 1960 avevamo ancora dodici poderi con le relative case coloniche, nel 1970 non ce n’erano più. 

Certamente fronteggiare un cambiamento simile, dalla mezzadria alla conduzione diretta con manodopera salariata, non è stato facile perché, se ciò può talvolta significare un miglioramento della produzione e può rappresentare un progresso, tuttavia comporta notevoli trasformazioni nell’organizzazione dei poderi, attraverso investimenti di capitali e personale interessamento alla gestione da parte dell’imprenditore. 

Ho cercato di fare meglio possibile: ho mantenuto una vigna – affidata ora ad un mio bisnipote – che produce dell’ottimo vino che vendiamo nella bottega di fattoria, ho iniziato la coltivazione intensiva degli ulivi ( ne ho piantati quasi 3000 !! ) , ho modernizzato il frantoio, mettendolo a norma secondo le leggi vigenti e utilizzando tecniche più avanzate per velocizzare e migliorare il lavoro, conservando quelle caratteristiche di frantoio all’antica, che lo rendono unico in tutta la zona. 

Infatti la tecnica è rimasta invariata negli anni: si usano ancora le macine, fatte di granito provenienti dal Lago Maggiore che, per quanto si consumino, non diventano mai lisce, ma mantengono la ruvidità, in modo che “la pasta” non scivoli, ma venga sempre ben frantumata. 

Anticamente nel luogo dove sorge il frantoio, c’era un podere chiamato “Ospedale di S. Antonio all’Onda” appartenente all’ Ospedale del Bigallo: nel 1738 fu costituito un “livello” da parte dei Marchesi Guadagni ( antenati dei Dufour Berte) che fu affrancato da mio nonno Casimiro Dufour Berte, nel 1911. 

Il frantoio prima era a trazione animale, poi mio padre mise la prima trazione elettrica, circa verso il1930; prima c’era il bindolo, cioè una trave che veniva spinta da quattro uomini e una vite senza fine che spingeva la pasta d’olive; poi fu messa una piccola pressa idraulica a 250 atmosfere; ora ce ne sono due a 400 atmosfere; ci sono due macine doppie naturalmente a motore, un robot che distribuisce la pasta automaticamente e la centrifuga che divide l’acqua di vegetazione dall’olio. E’ un lavoro molto più lungo di quello che viene fatto con i frantoi moderni, però è molto apprezzato perché l’olio ha un gusto diverso, ha un’altra consistenza, un altro valore e molti clienti , anche se hanno vicino un frantoio moderno con una lavorazione più veloce, preferiscono venire da noi. 

L’orario di lavorazione, nel periodo di maggior lavoro, è di 24 ore su 24, comprese le domeniche. Si effettuano tre turni di otto ore ciascuno impiegando due persone per turno. Si lavora per tutto il mese di novembre, in dicembre solo con orario ridotto , in modo da non far asciugare i “fiscoli”, altrimenti si sciupa l’olio. 

I nostri clienti sono i contadini e i piccoli proprietari della zona e altri , provenienti da tutto il Mugello, in tutto circa 200. 

I lavori pregressi invece erano quelli relativi alla conduzione a mezzadria, in cui il lavoro veniva svolto dai contadini, per esempio l’allevamento del bestiame: pecore, suini, bestie vaccine allevate in stalle molto belle e ben tenute . L’ allevamento è stato il primo ad essere dismesso: in realtà ho provato a mantenere una stalla, ma non ci si faceva ed ho smesso; le case sono state ristrutturate e trasformate in agriturismi e ciò ci dà la possibilità di tirare avanti anche il resto. 

Anche noi avevamo la produzione della pesca-regina, un frutto di qualità sconosciuta che fu trovato, per caso dall’arboricoltore Alfredo Leoni (che lavorava alle dipendenze del Conte Pesciolini) in un podere di Casi ( Rufina) e che venne poi coltivata nel podere di Vicorati, , qui a Londa, con il nome di Pesca-regina di Londa. E’ un frutto di qualità molto bella, di grossa pezzatura, dal profumo intenso e dal gusto delizioso, che matura in leggero ritardo rispetto agli altri. 

Negli anni ‘60 era coltivata su larga scala, poi la coltivazione è stata ridimensionata, salvo acquistare maggiore importanza nella nostra epoca. 

Per noi però questa coltivazione era troppo difficoltosa, perché la maturazione avveniva contemporaneamente e bisognava disporre di personale residente che non avevamo più. 

Penso che per migliorare l’economia del paese, potrebbe essere potenziata in maniera più intensiva, da parte dei piccoli produttori, la coltivazione di questo frutto, perché ha un ritardo di circa una quindicina di giorni nella maturazione e ciò permetterebbe di collocare il raccolto sul mercato in un tempo in cui scarseggia e quindi spuntare prezzi più elevati. 

Quando sono morte le mie sorelle abbiamo diviso la proprietà. Ho mantenuto la gestione della mia parte e di quella della mia sorella maggiore: le case coloniche sono di uso e proprietà delle mie nipoti ed alcune adibite ad agriturismo. 

Per i terreni, invece, ho costituito una società semplice agricola con i miei bisnipoti, che si interessano dell’azienda ( uno si occupa delle coltivazioni, l’altro del frantoio). Non vado più nei campi con gli operai a causa dell’età avanzata, ma mi occupo del frantoio e tengo l’amministrazione di questa società: è un lavoro, che inizialmente ho fatto per scelta, poi l’ho dovuto fare per necessità, mentre i miei nipoti l’hanno fatto per scelta. 

Questo lavoro mi dà molte soddisfazioni, anche se i pensieri non sono mai mancati: li ho ricevuti in eredità da mio padre, ma li ho mantenuti alla grande… 

Tutti quelli che mi conoscono mi apprezzano e mi rispettano, comunque a me interessa l’opinione delle mie nipoti, che sanno come abbia lavorato per mantenere la terra per loro e per i loro figli. 

Cerco di svolgere questo lavoro, secondo principi che valgono per tutta la vita: l’onestà, la vicinanza ai dipendenti nelle loro necessità, essere puntuale nei pagamenti, perché si può risparmiare su tutto ma non sulla manodopera. 

La trasformazione di questo lavoro, da conduzione a mezzadria a conduzione diretta con coltivazioni intensive (come nel mio caso gli ulivi) mi ha dato meno responsabilità, in quanto, prima, con diversi tipi di coltivazione e tante persone alle nostre dipendenze, c’erano anche tanti problemi da risolvere. 

I cambiamenti avvenuti hanno modificato le mie abitudini, in quanto mentre prima i contadini sapevano quello che c’era da fare, adesso gli operai vanno maggiormente seguiti e guidati. 

Posso confrontare il lavoro del passato con quello attuale solo per quanto riguarda la coltivazione degli ulivi: non è cambiato niente nel lavoro vero e proprio mentre, riguardo alla raccolta, tutto si è velocizzato con l’uso dei rastrelli o addirittura di moderne macchine, con minore dispendio di energie per i lavoratori. Ci sono stati radicali e rilevanti cambiamenti, ma di ciò se ne parla ampiamente in tutta l’intervista. 

La storia dei nostri contadini è ricca di un passato colmo di fatica, sudore e dignità: si lavorava dall’alba al tramonto, in quanto al termine del lavoro nei campi, essi continuavano le loro occupazioni nella stalla, nella cantina o nell’orto. 

Il mezzadro doveva provvedere alla manutenzione dei fabbricati colonici e delle strade poderali, dei fossi, dei pozzi, dei ciglioni, delle stecconate e delle siepi appartenenti al podere, quindi tutto era molto più in ordine, soprattutto riguardo allo scorrimento dell’acqua; adesso si fanno solo i lavori indispensabili, mantenendo pulito e in ordine solo tutto ciò che circonda le coltivazioni 

Adesso c’è un orario di lavoro prestabilito (8 ore) e quindi si ha molto tempo libero. Ci sono anche più strumenti tecnologici che nel passato, quindi la fatica è notevolmente diminuita. Le innovazioni tecnologiche hanno alleggerito e modernizzato il lavoro, anche se l’acquisto di certi macchinari, come il trattore comporta un grosso sacrificio economico. 

Del lavoro attuale ve ne parlerà più diffusamente Tony, un operaio albanese che è alle mie dipendenze. 

“Mi chiamo Fatjon Burfhielas , detto Tony, sono nato a Valona, in Albania, nel 1976. 

Lavoro come operaio presso la Fattoria di San Leolino, dove mi occupo di ogni tipo di lavoro agricolo e specialmente di quello che riguarda la coltivazione degli ulivi: vangare, concimare, potare, raccogliere ecc; stagionalmente lavoro anche presso il frantoio, se c’è bisogno mi occupo della vigna, faccio la manutenzione negli agriturismi: insomma sono una specie di uomo di fiducia. 

Gli operai che lavorano con me sono tutti uomini, tranne alcune donne impiegate nella raccolta delle ulive, di età e provenienza variabili, perché si tratta di personale stagionale. 

Dopo essermi diplomato ho lavorato per un periodo in Grecia, sempre occupandomi di agricoltura, poi non essendoci possibilità di lavoro, ho pensato di emigrare in Italia dove sono arrivato nel 1998. 

Ho scelto Londa perché c’erano già alcune famiglie di connazionali che mi trovarono un alloggio, un appartamento di proprietà della Sig.na Dufour Berte. In quel modo ho avuto occasione di iniziare questo lavoro, del quale sono molto soddisfatto, in quanto percepisco uno stipendio sicuro, essendo stato regolarmente assunto, svolgo un orario di 8 ore al giorno ed ho diritto al riposo nella giornata del sabato e ad un mese di ferie che trascorro, regolarmente in Albania, perché per quanto mi sia perfettamente integrato, non ho dimenticato le mie origini. 

A Londa c’è una comunità di albanesi piuttosto numerosa: gli uomini lavorano, per la maggior parte, come muratori, le donne al carnificio o presso i ristoranti della zona, oppure fanno le pulizie nelle famiglie o l’assistenza presso le persone anziane. 

Mi sono integrato molto bene nella comunità londese e , nel mio tempo libero, svolgo attività di volontariato presso la Misericordia e la Protezione civile. 

Il mio caso dimostra che gli stranieri riescono a integrarsi bene nel lavoro agricolo e nel contesto, purché abbiano, come nel mio caso, un po’ di esperienza in questo campo”. 

Come vi ho già detto, la maggior parte delle famiglie contadine erano inquadrate in un rigido ordinamento patriarcale. Allora la famiglia contadina era multipla, cioè in essa convivevano diversi nuclei familiari, legati da parentela diretta. 

Il vincolo principale era costituito però dalla capacità di lavoro, quindi potevano venire a farne parte anche persone estranee; infatti , quando le braccia per il lavoro scarseggiavano, si ricorreva di frequente a “garzoni” oppure si prendevano in custodia bambini orfani provenienti dall’Ospedale degli Innocenti (“ nocentini”) o dall’Ospizio del Bigallo. 

Nella famiglia colonica il potere e le decisioni erano affidate al “capoccia”, che era il responsabile verso il proprietario di ciò che succedeva nella famiglia e nel podere. Spettava a lui stipulare il contratto con il proprietario, regolare i conti annuali, programmare i lavori assegnando ad ognuno il suo compito, provvedere all’acquisto e alla riparazione degli attrezzi 

Era una vita fatta di lavoro, che lasciava ben poco tempo per altre cose, infatti terminato il lavoro nei campi, i contadini continuavano le loro occupazioni nella stalla, nella cantina e nell’orto, oppure riparavano attrezzi o ne costruivano di nuovi, fabbricavano panieri e cestini di vimini e scope di saggina e lo stesso avveniva anche durante il periodo invernale. 

Nella gestione della famiglia un ruolo importante lo svolgevano le donne: la massaia oltre ad occuparsi dei lavori di casa e ad aiutare nei campi, provvedeva all’alimentazione e all’andamento della famiglia, organizzava il lavoro dei figli, nuore e nipoti, sovraintendeva all’educazione dei bambini, si occupava dell’orto e degli animali domestici, contribuendo a sostenere le piccole spese di casa, con il ricavato della loro vendita. 

Gli unici momenti di lavoro e di svago erano costituiti dalle “veglie” intorno al focolare e dalla cerimonie religiose festive che rappresentavano le rare occasioni di socializzazione e di dialogo. Ci si ritrovava nella grande cucina, si chiacchierava e, mentre le donne di casa rammendavano, filavano la lana, ricamavano il corredo o lavoravano a maglia, gli uomini giocavano a carte, fumavano la pipa e si scaldavano accanto al fuoco parlando di caccia. 

L’unica possibilità di recarsi in paese era costituita dalla partecipazione ai mercati ed alle fiere , che fornivano l’occasione di acquisti o di incontri: si poteva sostituire un utensile, un attrezzo, acquistare un giocattolo o della stoffa, o semplicemente parlare con i conoscenti. 

Era, per i giovani dell’età giusta “ il momento del corteggiamento”; i ragazzi facevano “ la dichiarazione” alle ragazze; era l’occasione per passare da una semplice amicizia ad una storia d’amore, che sfociava in un lungo fidanzamento e, quasi sempre, in un matrimonio. 

Molto partecipate erano le feste religiose, sia quelle che si tenevano in paese che presso i piccoli santuari di campagna .Famosa era a Londa la festa dell’oratorio di Montedomini, che si teneva l’8 settembre e che viene ricordata con nostalgia dagli abitanti più anziani. 

Erano molto sentite anche le cosiddette “ feste dell’anno”, la Befana, Carnevale, i riti di Pasqua e soprattutto il Corpus Domini. 

La parte più importante era costituita dalla processione: le donne sfilavano con il velo in testa, bianco per le ragazze e nero per quelle più anziane, i bambini appena “ passati” a comunione, indossavano il vestito confezionato per l’occasione; gli uomini vestivano di scuro, le finestre lungo il percorso erano addobbate con tappeti ed arazzi e le strade erano cosparse di petali di fiori. 

Alle processioni intervenivano tutti i nostri contadini: chi portava la croce, chi lo stendardo, chi il baldacchino, chi provvedeva al servizio d’ordine e così via. 

Oggi in città le processioni sono praticamente scomparse, nei paesi si assiste al passaggio di uno sparuto gruppo di persone, bambini o per lo più anziani. Una cosa è rimasta quasi uguale: la banda. Suonatori di strumenti musicali giovani, alcuni giovanissimi, adulti ed anziani, quasi sempre in uniforme allietano e donano con la musica gioia ed emozione al passaggio della processione. 

In occasione delle più importanti “faccende” di campagna – mietitura, battitura- veniva allestita una grande cena, alla quale anche noi eravamo regolarmente invitati: la pietanza principale era il “locio” (oca maschio), che veniva allevato appositamente per quell’occasione. 

Adesso nel mese di luglio facciamo una festa per gli stranieri ospiti negli agriturismi , che consiste in un’abbondante merenda-cena a base di prodotti tipici locali, seguita da uno spettacolo di canti tradizionali toscani, quasi sempre tenuto dal gruppo dei maggiaioli di Dicomano e S. Godenzo. Questa festa si svolge nella piazza vecchia del paese e costituisce anche un momento di socializzazione fra gli stranieri ed i cittadini di Londa, dato che anche questi ultimi partecipano numerosi. 

Noi partecipavamo attivamente alla vita di nostri contadini: venivamo invitati ai matrimoni, ai battesimi, prendevamo parte ai loro lutti: la persona che ci ha allevate (eravamo tre sorelle) è vissuta sempre con noi e adesso è sepolta nella nostra tomba di famiglia, qui a Londa. 

Il lavoro della terra non era molto considerato, anzi in certi casi, era disprezzato: molti hanno smesso di fare il contadino perché le ragazze non li sposavano, potevano sposarsi solo fra contadini. 

Del territorio ho dei ricordi bellissimi: quando era tutto coltivato sembrava un giardino: la distesa di erba medica fiorita, le viti e gli ulivi coltivati insieme, qualche albero da frutto qua e là, il verde cupo dei boschi, quello più acceso dei prati e così via. 

Soprattutto era tutto pulito e ben tenuto, con i fossetti mantenuti in ordine e l’acqua che scorreva al posto giusto. 

Ho un gran bel ricordo anche di tutti i nostri contadini, perché onesti, lavoratori e affezionati. 

Ora, rispetto all’agricoltura e alla terra in genere, ci sarebbe bisogno di un mercato sicuro e un po’ di sovvenzione, perché non si arriva a fare tutto ciò che si vorrebbe. 

La Terra ha un valore immenso perché da essa dipende la nostra vita: noi dobbiamo rispettarla, facendo il proposito di partire da semplici gesti quotidiani come non inquinare, gettare a terra i rifiuti, perché ognuna di queste azioni è un’offesa alla Natura. Se amiamo la Terra ritroveremo anche la nostra parte migliore, quella che ci fa guardare alla vita in maniera diversa, proprio come madre Terra vorrebbe. 

Dobbiamo sempre ricordare che il lavoro della terra può contribuire alla salvaguardia dell’ambiente, perché se tutto viene mantenuto in ordine (strade- fossi-boschi) diminuisce il pericolo di frane e alluvioni. 

Io, data l’età avanzata, posso solo trasmettere quello che è la mia esperienza, costituita dai principi che ho appreso, sono contenta che i miei nipoti abbiano capito quale è l’importanza della terra e come sia necessario salvaguardarla per mantenere la vita sana. 

Per fortuna da qualche tempo si nota un rinnovato interesse verso l’agricoltura, sia da parte dei giovani alla ricerca di un lavoro e di un diverso stile di vita, sia da parte di coloro che desiderano un cambiamento radicale e tornano al settore, per affrontarlo con le tecnologie di oggi e di domani. 

Io penso che l’agricoltura sia ancora una grande risorsa, perché oltre a far riscoprire il fascino della natura, ci consente di riavvicinarsi ad un modo più sano di vivere, grazie ad un rapporto più stretto con la natura. 

Certamente, questo ritorno alla terra sembra realizzarsi adesso con modalità nuove rispetto al passato, in quanto, se una volta c’erano solo braccianti e conduttori di macchine, ora le nuove tecnologie e le energie rinnovabili hanno allargato il campo della specializzazione. 

Io, come ho già detto, per la mia età avanzata, se penso al futuro del mio lavoro lo vedo rappresentato nell’amore per la terra, che ho potuto suscitare nei miei nipoti. 

Sono molto soddisfatta del lavoro che ho fatto e mi piace parecchio vivere in questo territorio, dove la mia famiglia è presente fino dal 1645, quando Ferdinando II dei Medici concesse ad una mia antenata, donna Ortensia Guadagni, il feudo di San Leolino, in cambio dei suoi servigi, come governante del figlio Cosimo III. Anche i miei nipoti hanno tutti la casa a Londa e ci vivono molto volentieri. 

Il futuro lo vedo incerto perché non ci sono risorse. Ora sembra che il Governo abbia programmato un piano a sostegno dell’agricoltura, che prevede incentivi e semplificazioni, ci sarebbe davvero bisogno di un maggior sostegno economico, altrimenti non ce la facciamo.

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